Il
grande affresco si trovava originariamente nel cortile di
Palazzo Sclafani, edificio trecentesco divenuto verso la metà
del XV secolo, dopo il trasferimento della famiglia Sclafani
in Spagna, la sede dell’Ospedale Grande e Nuovo della
città di Palermo. Staccato nel 1944, a causa dei danni
bellici, il dipinto pervenne a Palazzo Abatellis all’apertura
della Galleria. La scena, apparentemente irreale ma con forti
agganci al vero, è chiara: la morte in sella ad un
cavallo scheletrito irrompe in un giardino, scagliando i suoi
dardi su nobili fanciulle e giovani gaudenti; sotto di lei
stanno, atterrate, le dignità del mondo. Si riconoscono
infatti dei vescovi, un papa, un imperatore, un sultano, un
uomo di legge quale l’allora famoso giureconsulto Bartolo
da Sassoferrato, identificato dalla scritta in caratteri gotici
sul libro che tiene in mano. La morte ha risparmiato la folla
dei poveri cenciosi che la invoca invece come una liberazione
dalle pene terrene, analogamente a quanto è rappresentato
nel Trionfo del Camposanto di Pisa, opera di Francesco Traini
della metà del ‘300. In secondo piano sono a
destra una fontana, interpretata come simbolo di vita o di
grazia, ed a sinistra un uomo con due cani, forse riferimento
a San Vito, santo guaritore caratterizzato appunto da una
coppia di cani. Nei due personaggi che guardano verso lo spettatore,
nel gruppo dei cenciosi, sono stati riconosciuti il pittore
ed il suo aiutante, con in mano la stecca ed il vasetto dei
colori.
Per ragioni storiche e stilistiche, si presume che l’affresco
sia stato realizzato intorno al 1440-1450, subito dopo la
fondazione dell’Ospedale Grande e Nuovo. Nonostante
le numerose identificazioni proposte, il suo autore rimane
ancora sconosciuto; secondo una leggenda si tratterebbe di
uno straniero che, guarito da una grave malattia, avrebbe
realizzato l’opera in segno di ringraziamento, ma questa
suggestiva ipotesi sembra da scartare alla luce del soggetto
stesso del dipinto, legato al tema della vanità dei
beni terreni e da collegarsi piuttosto ad una committenza
da parte dei rettori dell’Ospedale. Certamente l’artista
fa mostra di una cultura figurativa complessa di matrice tardo
gotica, ma con riferimenti a svariati modelli che spaziano
dalla miniatura all’arazzo, dalla conoscenza della pittura
catalana a quella franco-borgognona.
Testi a cura di Alessandra Merra (beni
archeologici) e Valeria Sola (beni storico-artistici)
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