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mercoledì 3 luglio 2024


Home PageUN ANÌMMULU DI NOME ANTONINO UCCELLO

INCONTRO CON LA MOGLIE ANNA CALIGIORE
Un ricordo del fondatore della Casa museo di Palazzolo Acreide a trentacinque dalla morte Ci sono libri che raccontano di vite e ci sono vite che raccontano di poesia, di passione, di storie, di incontri e di voli! La vita è quella di Antonino Uccello, figura che, parafrasando le sue stesse parole, sta a cuore a ogni buon siciliano. Etnologo e poeta scomparso troppo presto (1922-1979), originario di Canicattini Bagni (in provincia di Siracusa), dopo un periodo di trasferta in Brianza come maestro di scuola elementare, si stabilizza a Palazzolo Acreide dove nel corso degli anni Sessanta, dà vita a una Casa museo, una casa della civiltà contadina, aperta al pubblico nel 1971, e diventata il fulcro e il modello dei cosiddetti musei etnografici non solo siciliani. Il libro è del nipote Paolo Morale Uccello1 e racconta, attraverso una serie di testimonianze, la straordinaria capacità del nonno di creare connessioni e legami. Legami fra intellettuali, studiosi e collaboratori che hanno accettato l’invito dell’autore a raccontare un ricordo o un aneddoto che li lega a quell’Icaro;2 legami, come sottolinea Pietro Clemente nella bella prefazione, soprattutto fra la gente comune che emerge dalle pagine del testo, quella gente senza potere ma ricca di sapere che frequentava la Casa museo Uccello: i vecchi e i giovani del paese che hanno preso parte alla realizzazione di quella creazione, rendendola una risorsa comune. La curatela è di Gaetano Pennino, che nel lungo saggio introduttivo, in cui ci accompagna nel ripercorrere le tappe fondamentali dell’attività di Antonino Uccello, si conferma profondo conoscitore dell’etnologo e della sua Casa museo, della quale per diversi anni è stato direttore. Una Casa museo che era viva perché una famiglia viveva al suo interno (Antonino Privitera), abitando le stanze e la cucina al primo piano e adibendo i locali del pianterreno, i tammusa con volte a botte e i locali con i tetti a travi, all’allestimento della casa del massaro, ma dedicando gli spazi dell’intera casa all’esposizione degli oggetti della cultura popolare, senza soluzione di continuità: dalla pittura su vetro agli ex voto, dalle statue di cera ai giocattoli e al presepe, dai pupi alle chiavi di carretto e ai ferri battuti. Una famiglia che faceva capo ad un marito, Antonino Uccello, e ad una moglie, Anna Caligiore, che di quel libro si può dire coprotagonista. Sono infatti tante nel testo le testimonianze di chi racconta di quanto i due fossero complementari e simbolo della coppia siciliana (Luigi Lombardo); di come lei seguisse con decisione i passi di lui, lo coadiuvasse nella sua impresa, di come fosse la sua serena e costruttiva compagna, come scrive lo stesso Paolo Morale Uccello. E questo fin dai “tempi della ricerca”, quando, durante i ritorni in Sicilia dalla Brianza, Anna accompagnava il marito nelle escursioni alla scoperta di reperti che raccontassero la storia passata e registrassero usi e costumi della tradizione popolare. Lei che aveva sempre tutto sottomano (Amico Dolci) e le cui capacità organizzative e realizzatrici erano percepite da chiunque, a fior di pelle (Gaetano Gangi). Lei che aveva acquisito competenze antiquarie, tanto che nei negozi e nei mercatini che frequentavano, ad Uccello bastava dire «Anna» e indicare un oggetto perché lei lo esaminasse ed esprimesse un parere (lo ricorda Gaetano D’Ambrosio). Ispirata dalla lettura di quel libro, diretto, sincero e commovente, nelle parole e nel repertorio fotografico che lo correda, ho voluto ricordare Antonino Uccello - a cui mi sento legata da profonda stima - con gli occhi della sua metà, invitandola a trascorrere insieme qualche ora nella Casa museo a cui i due hanno dato vita (grazie alla cortese disponibilità dell’Assessorato ai Beni Culturali e dell’identità siciliana, Casa museo Regionale Antonino Uccello di Palazzolo Acreide, SR). Le chiedo anzitutto cosa diede ad Antonino Uccello l’impulso alla ricerca e alla raccolta. Mi risponde lungamente: «In noi c’è sempre stato l’amore per l’arte popolare. Nel Natale del 1944, ad un mese di matrimonio, abbiamo allestito, nella casa dei miei dove vivevamo, il presepe tradizionale siciliano. Non era ancora il tempo di raccogliere, cominciato negli anni ’50 dopo che mio marito ha ricevuto il ruolo come insegnante in Lombardia, e dopo che la nostra famiglia si è ricongiunta (lui era partito da solo nel 1947, N.d.A.). La maggiore tranquillità ci ha portato a dare vita, a poco a poco, alla nostra collezione. Prima abbiamo attinto dagli oggetti della pratica quotidiana delle nostre famiglie, poi dall’acquisto nei mercatini e dalle escursioni sui posti, quando cercavamo oggetti - come cucchiai, mestoli di legno o collari per bestie - che altrimenti sarebbero andati perduti e abbandonati dai siciliani che negli anni del dopoguerra e del boom economico lasciavano le campagne per spostarsi al nord e nelle città delle fabbriche. Questi oggetti li lasciavamo nella casa dei miei, ma a Cantù, in Lombardia, avevamo portato con noi alcune cose come le chiavi di carretto siciliano (le parti intagliate che uniscono sul retro le due stanghe, in cui predominano solitamente scene di carattere cavalleresco, N.d.A.) che tenevamo esposte in una parete attrezzata (tanto che Antonino Uccello parla di quella casa come di un’oasi di Sicilia, N.d.A.). Già in quegli anni mio marito pensava a cercare una casa giù. Nel ’64 abbiamo acquistato a Palazzolo questa casa padronale settecentesca in un quartiere popolare, senza vederla, fidandoci del giudizio di un nostro amico ingegnere. Dopo alcuni anni di lavori, nel ’68 siamo venuti ad abitarla. L’abbiamo riempita degli oggetti raccolti e a poco a poco siamo riusciti a sistemarla. La casa era sempre piena di persone: amici degli amici degli amici! Soprattutto gente che veniva da fuori, perché mio marito, partecipando a conferenze e a convegni, aveva stretto rapporti di amicizia con diversi intellettuali e studiosi». La invito a ricordare un aneddoto di quei “tempi della ricerca”. «Io organizzavo tutto nel dettaglio, tenendo il conto dei soldi di cui avevamo bisogno durante i nostri viaggi ai mercatini di Palermo. Una volta, a causa di supplementi sul costo del biglietto del treno, non sono bastati i soldi per ritornare da Catania a Palazzolo! Avevamo due pacchi di pitture su vetro appena acquistate. Per fortuna mio marito trovò un amico che anticipò il pagamento per noi! I soldi erano comunque sempre risicati e a volte lui mi faceva arrabbiare perché continuava nella contrattazione con gli antiquari anche quando il nostro budget si era esaurito, dicendomi di lasciargli almeno il “gusto di trattare”!». Oggi la casa in cui ci troviamo è un museo etnografico che raccoglie le testimonianze della cultura popolare siciliana. Le chiedo invece cosa fosse per Antonino Uccello e per lei. «Per noi era la nostra casa, compresi i locali allestiti nel piano di sotto, la casa ri stari (la casa dove si abita, il cui forno a pietra veniva spesso usato per cucinare agli ospiti, N.d.A.), la casa ri massaria (la casa dove si lavora, N.d.A.), con la stalla, il frantoio, il maiazzè. Nonostante questo, mio marito era convinto che dovesse diventare una istituzione pubblica». Scrive infatti Antonino Uccello: «Capivo che non avremmo potuto vivere a lungo questa avventura: solo un’istituzione pubblica avrebbe potuto assumersi il peso della continuità e della protezione di questo patrimonio ».3 Rifletto come questa trasformazione fosse il naturale destino per una collezione che era nata per documentare e testimoniare un’intera società, quella contadina. A questo proposito mi sembra utile riportare le parole di Antonino Uccello che nella sua descrizione della Casa museo scrive: «Un museo etnografico potrà notevolmente contribuire a salvaguardare almeno in parte il materiale di studio, a educare e sensibilizzare l’opinione pubblica, per non dire poi degli ovvi vantaggi che se ne dovrebbero ricavare sul piano scientifico, culturale e turistico».4 Riprende la signora Anna: «La gestione era diventata pesante, perché la manutenzione degli oggetti, la pulizia, le spese, la custodia, le visite guidate alla casa per le scuole e i visitatori che bussavano a tutte le ore, pesava solo su di noi. Non c’era Pasqua, non c’era Natale, non c’erano festività. E tutto era a titolo gratuito, perché la raccolta non veniva vissuta come qualcosa di privato ma come bene collettivo», o servizio sociale come scrive Uccello. Continua la signora Anna: «Gratuite erano anche le mostre che organizzavamo, delle quali eravamo curatori, allestitori e accompagnatori! L’azienda per il Turismo ci aiutava nella stampa dei manifesti». Mostre che come scrive Uccello erano «l’unico modo di proiettarsi nel territorio, di prendere contatti e parlare con la gente».5 Penso a come l’innata vocazione didattica di Antonino Uccello, testimoniata dalla scelta della professione di insegnante, abbia dato l’impronta alla sua collezione e alla sua completa fruibilità, e lo abbia aperto ad accogliere i giovani che, anche oggi da adulti, come mi racconta la moglie, lo ricordano con grande affetto e riconoscenza. Nel testo di Paolo Morale Uccello sono pubblicate quattordici poesie inedite di Antonino Uccello, frutto di una vocazione poetica che non è stata indagata a fondo come la sua attività di ricerca. Chiedo alla signora Anna quando il marito scriveva e dove trovava ispirazione. «Scriveva nella sua intimità. Io leggevo le poesie solo una volta che venivano pubblicate», mi risponde, forse con un velo di amarezza. Accenniamo quindi alla apatia, disinformazione, ignoranza e malacoscienza (Giuseppe Quatriglio) che circondavano l’etnologo, e alla classe dirigente e alle istituzioni che lo emarginavano e non lo aiutavano,6 provocandogli ferite e riflessioni che lui convogliava nelle poesie, come in una sorta di sfogo. E non solo nelle poesie, ma anche nelle lettere e negli articoli di denuncia in cui la stampa gli dimostrava solidarietà. «Insomma, ha lottato tanto», aggiunge la signora Anna, «senza lasciarsi andare a compromessi», da cane sciolto, come lui stesso si definiva in una lettera del 1970 all’etnoantropologo Alberto Mario Cirese. Prima di fare insieme il giro della Casa museo, le chiedo che cosa abbia significato per lei essere la moglie di Antonino Uccello. «Per me è stata una cosa naturale! È stata la mia vita», risponde, «a me piaceva quello che facevamo, e non perché assecondassi mio marito. Non facevo sacrifici a rinunciare a tante cose di cui non sentivo necessità, come i gioielli o le pellicce; preferivo che i soldi servissero a comprare gli oggetti per la raccolta! Una volta a Siracusa, barattammo una mia specchiera da comò per due figure in cera! Ci siamo trovati in questo, io e mio marito, dall’allestimento di quel presepe nel ’44 fino alla sua morte, e sempre con sacrifici enormi. Dopo per me è stata un’esperienza conclusa. Ogni tanto vengo qui, e mi piace venire. Controllo e mi informo che tutto vada bene». Ed anche quel giorno, da perfetta padrona di casa, ha controllato che tutto fosse in ordine, lamentandosi un poco per un muro scrostato, sistemando la cuffietta ad una Maria bambina di cera e il lenzuolino della culla “a volo” sospesa sul letto matrimoniale della casa ri stari.
GIACOMINA R. CROAZZO
Ringraziamenti
Si ringraziano la signora Anna Caligiore per la mattina trascorsa insieme ai suoi ricordi, Calogero Rizzuto, direttore della Casa museo Regionale A. Uccello di Palazzolo Acreide per l’ospitalità, l’autore Paolo Morale Uccello per la fiducia, il signor Raimondo Pedalino per la disponibilità.


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