Con le ginocchia leggermente piegate, le braccia tese, l'unghia lunga e i gemelli d' oro, una tazza sulla testa del cliente mentre il fornellino a spirito scaldava l' acqua, il barbiere siciliano pettinava la vita e, senza saperlo, teneva a battesimo la questione meridionale che sulla lotta quotidiana tra pensieri e capelli è notoriamente fondata. Con la brillantina lucidava anagen, catagen e telogen, mentre la Storia e il Diritto venivano tranciati con i peli della barba perché tutto si poteva dire dal barbiere, tempio della insensatezza aggregativa. Poi con la lacca stabilizzava il mondo: capelli biforcuti e pensieri messi in piega contro Roma, contro il Piemonte, contro le banche, ma sempre con spensierata gratuità. E a volte il barbiere faceva partire la musica: improvvisazioni alla chitarra e al mandolino che allentavano il rancore sociale perché, prima che prendesse piede la democrazia - ma ha poi preso piede? -, il salone al Sud aveva la stessa funzione che al Nord avevano le bettole, quelle dove Renzo va a mettersi nei guai. Ed erano raschi di gola e vocalizzi da "amatore", battendo il tempo sul flacone del proraso e del prep in mezzo al chiasso ma anche alle pernacchie, spesso di stomaco, alle risate e agli scappellotti che i carusi prendevano dal mastru. L' ultimo dei carusi scopava ciocche e cicche ed era come spazzare via le ribellioni più strampalate perché niente aveva rigore dinanzi al rigore di una lama affilata. Al primo dei carusi l' onore di preparare la saponata. C' era, d' obbligo, la Domenica del Corrieree il sabatou mastru officiava il rito della schedina. Ed era un mondo tutto maschile, greve e caprone. Alzandosi dalla sedia girevole, il cliente si toccava con la mano a coppa. Il calendario profumato era "sexy" e non ancora "porno", e i baffi erano a camminata di furmicula, a cammino di formica, «perché i fimmini vogliono sentire la polpa, ma ci piace pure il solletico». Ogni tantou mastru andavaa radere un morto. «Baciamo le mani» scandiva chi entrava; «ragazzo, spazzola!» era il saluto d' uscita, quando al caruso toccava, con lo scappellotto, anche la mancia. Era un artista romantico il barbiere meridionale? «Il suo nome era Dino Rossi; faceva il barbiere giù a North Denver, nel quartiere italiano... sottile, con una voce dolce, manie piedi molto piccoli. Non era stato certo un rivale degno di mio padre, degno di un muratore». Così comincia il racconto di John Fante, con la mitezza del barbiere, più orecchio che bocca. Eppure, solo il docile barbiere era capace di far correre la lama sul palloncino gonfio senza farlo scoppiare. E per forza doveva essere mite! Come avrebbe potuto, se no, maneggiare armi bianche, forbici e rasoi, acidi corrosivi, pettegolezzi e veleni, senza mai impensierire nessuno? E spesso era zoppo, dunque inadatto ai veri lavori del maschio, ma doveva essere fidato e mansueto: solo a lui era permesso di toccare l' inviolabile faccia del siciliano. «Papà si divertiva - continua John Fante - a vedere Dino al nostro tavolo perché Dino non era riuscito a sposare mammà, mentre papà l' aveva sposata». Eppure cavava i denti, raddrizzava ossa, applicava le mignatte ed era il custode della più antica dottrina tricologica, quasi tutta racchiusa in quel bruciante test al quale viene sottoposto l' apprendista Nino Manfredi nel film di Dino Risi: Sfumi? «Punta e forbice». Macchinetta? «Rifuggo». Shampoo, oli e balsamo erano mollezze per femmine; la scriminatura era netta, forte e a sinistra; non c' erano rimedi per il tignone, segno del pensiero che si era fatto strada. E difatti non c' era nulla di peggio di un grande pensiero sormontato da un capello fragile. I ricchi ricevevano il barbiere a casa con forbici, pettine e rasoio "privati". Filippo, che ha il salone in piazza del Nazareno a Roma ed è un gentiluomo ovviamente siciliano, partiva due volte al mese per tagliare, a Parigi, i capelli di Vittorio De Sica il quale affittava una saletta privata sugli Champs Elysées. E il papà di Leo, che ha il salone più spacchiusu di Catania, raccontava di un barone (niente nomi, per carità!), che pretendeva la spuntatura a letto, mentre ancora dormiva. Leggendo il bel libro, con l' introduzione di Andrea Camilleri che qui pubblichiamo, Musica dai saloni. Suoni e memoria dei barbieri di Sicilia, ed ascoltando il disco che lo chiude e conclude come uno chignon, viene in mente l' ironia di Brancati sul siciliano «che ha una rara vocazione all' arte». Anche nel libro, che consigliamo nonostante il barbiere vi diventi una lucciola pasoliniana, c' è la ricerca ossessiva dell' arte dimenticando che c' è anche l' arte di non avere arte: «Gli piacevano - continua Brancati - tutte le specie di suoni, fossero quelli dell' organo o quelli striduli di un martello di maniscalco». A quei tempi si faceva musica anche dal sarto, dal calzolaio e dal farmacista, come appunto nella Pachino di Brancati: «Sotto il teschio di cartone con la scritta "veleni", il ragazzo imparava la chitarra mentre il giovanotto arrivato da Parigi insegnava, con dei no no, sì sì, no, l' ultima canzone all' amico che la ripeteva sul mandolino». Eppure si può studiare il passato, e magari amarlo, senza rimpiangerlo. Di sicuro la Sicilia ha dato all' Italia persino più barbieri che insegnanti, con avamposti di eccellenza in ogni angolo del mondo. A Catania si è appena concluso un magnifico convegno su capellie barbe nella storia- la barba contro la barbosità accademica - organizzato da un barbiere, Salvo Ruffino, e da Tino Vittorio, un professore universitario di Storia che in questo caso è Tricostoriografia, storia raccontata a partire dai peli, come già fecero l' abate Thiers con Teologia del capello (1690), e il vescovo Sinesio di Cirene con Elogio della calvizie (Quinto secolo dopo Cristo). Ma sono state le barbe o i barbieri a fare la storia? Camilleri lascia intendere di cosa è morta la barberia meridionale dove, da ragazzino, andava mal volentieri perché intuiva che proprio lì, nella cuticola, si annida la libertà di pensiero che nessuno riesce a domare e a pettinare. Fu poi il ' 68 che seppellì il genere: Mao non si lavava neppure i denti perché, diceva, «le tigri non lo fanno». - FRANCESCO MERLO
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