Trent’anni fa moriva a Palazzolo Acreide Antonino Uccello, etnologo e poeta, ideatore della casa-museo sulla cultura contadina e le tradizioni popolari Era una foto sbiadita, con gli angoli addirittura bianchi. E gli occhi della donna lucenti come di lacrime silenziose erano l’unica cosa viva. La teneva in mano un ragazzo vestito di scuro e imbarazzato mentre diceva ad Antonino Uccello: "E la foto di mia madre. La conservi lei, professore. Io parto per la Germania e non ho a chi darla. Se torno qui, nella casa posso ritrovarla". La "casa", come la chiamiamo a Palazzolo Acreide era la creatura di Antonino Uccello, metà etnologo e metà poeta, volato forse troppo vicino al sole, come Icaro con le sue ali di cera. Raccontava la storia dei contadini e della loro vita, conservava assieme canzoni e poveri merletti, coperte tessute a mano, aspettando "u zitu", gioielli di pietra e cuori di cartone, fotografie di antenati, pupi e pupazzi di creta. Erano frammenti messi assieme con la fatica paziente dell’amore, ognuno al suo posto, nel corso di lunghi anni, sotto gli occhi prima stupiti, poi incantati, dei contadini e di tutti quelli che lo conoscevano. Venivano pittori, scrittori, Sciascia, Guttuso, Canzonieri, Zancanaro. Ma c’era anche Tivisini, il vecchio contadino di cento anni che si sedeva sullo scalino della casa e diceva: "Se non vi puortu disturbu, mi puozzo assittari, e taliari. E gudiri!". La saggezza di una intera cultura contadina era riaffiorata nella "casa ri stari" e nella "casa ri massaria", si vedeva nella disposizione così logica dei pochi oggetti, nella "naca al vento", la grande culla appesa sul grande letto matrimoniale, con il "cannizzo" pieno di grano, lì accanto. Poi, una sera piovosa di trent’anni fa, il 29 ottobre del 1989, quell’incantesimo fu spezzato. Antonino Uccello si arrese ad un male incurabile che lo divorava, senza alcuna pietà. Era una foto sbiadita, con gli angoli addirittura bianchi. E gli occhi della donna lucenti come di lacrime silenziose erano l’unica cosa viva. La teneva in mano un ragazzo vestito di scuro e imbarazzato mentre diceva ad Antonino Uccello: "E la foto di mia madre. La conservi lei, professore. Io parto per la Germania e non ho a chi darla. Se torno qui, nella casa posso ritrovarla". La "casa", come la chiamiamo a Palazzolo Acreide era la creatura di Antonino Uccello, metà etnologo e metà poeta, volato forse troppo vicino al sole, come Icaro con le sue ali di cera. Raccontava la storia dei contadini e della loro vita, conservava assieme canzoni e poveri merletti, coperte tessute a mano, aspettando "u zitu", gioielli di pietra e cuori di cartone, fotografie di antenati, pupi e pupazzi di creta. Erano frammenti messi assieme con la fatica paziente dell’amore, ognuno al suo posto, nel corso di lunghi anni, sotto gli occhi prima stupiti, poi incantati, dei contadini e di tutti quelli che lo conoscevano. Venivano pittori, scrittori, Sciascia, Guttuso, Canzonieri, Zancanaro. Ma c’era anche Tivisini, il vecchio contadino di cento anni che si sedeva sullo scalino della casa e diceva: "Se non vi puortu disturbu, mi puozzo assittari, e taliari. E gudiri!". La saggezza di una intera cultura contadina era riaffiorata nella "casa ri stari" e nella "casa ri massaria", si vedeva nella disposizione così logica dei pochi oggetti, nella "naca al vento", la grande culla appesa sul grande letto matrimoniale, con il "cannizzo" pieno di grano, lì accanto. Poi, una sera piovosa di trent’anni fa, il 29 ottobre del 1989, quell’incantesimo fu spezzato. Antonino Uccello si arrese ad un male incurabile che lo divorava, senza alcuna pietà. Negli ultimi tempi, quando la faccia era scavata dal male e i vestiti gli stavano sempre più larghi, temeva che il museo di storie, di immagini, il museo senza vetrine e senza chiavi, sarebbe finito con lui. Con la sua passione troppo fragile e incantata per il cinismo dei politici, per le ambizioni aride di chi non lo riteneva sufficientemente "scienziato". Dopo la sua scomparsa, la casa che parlava da sé, rimase muta per nove lunghi anni. Molti pensarono che con la morte di Uccello fosse tutto finito. Era rimasta la moglie, Anna, indomabile, e pochi amici fidati a tenere in vita la speranza, ad aprire la porta ai tanti visitatori di quella casa così unica. Dopo varie vicissitudini, nel 1988 arrivò, dopo nove anni, una prima riapertura con una mostra di corredi sulla "roba della sposa". Poi ancora silenzi e ritardi. Solo da qualche anno il museocasa è tornato pienamente a vivere, grazie all’opera generosa e competente di Gaetano Pennino e Rita Insolia. L’atmosfera, certo, non è più la stessa. Chi l’ha vista con il braciere acceso la sera, con le fave abbrustolite nella cenere, le salsicce appese d’inverno, proverà un infinito senso di malinconia. Tuttavia, oggi, dopo trent’anni, è arrivata davvero l’ora di rendere giustizia alla figura di Uccello che, come scriveva Vincenzo Consolo, "era in lotta con gli speculatori, con i nuovi piccoli borghesi che nelle case fresche di cemento, stipate di mobili ed oggetti industriali, volevano anche il pezzo di carretto, il pupo paladino, il vaso di terracotta, il dipinto di vetro, cose che il giorno prima avevano distrutto o dato al rigattiere". Uccello lottava contro un mondo che scompariva, che negava la sua stessa identità. E in un mondo di falchi avidi, nessuno si rende conto che i poeti, come diceva Buttitta, non si mangiano, ma si lasciano cantare. Ed Uccello è morto così, solo e disperato, quasi chiedendo scusa per aver osato, in nome delle radici antiche della sua gente, "discorrere d’alberi, in tempo di delitti". Salvo Guglielmino
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