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mercoledì 3 luglio 2024


Home PagePasqua 2010

Al centro dell’universo simbolico delle feste tradizionali ricadenti tra la primavera e l’estate troviamo, oltre agli elementi arborei, in maggior misura il grano e il pane. La loro valenza semantica è connessa a pratiche e rituali intesi a propiziare la rinascita della natura, la rigenerazione dei cicli vegetali e la rifondazione del tempo: testimonianze del persistere di antichi culti agrari del mondo greco-romano, confluiti, attraverso un processo di sincretismo, anche nella religiosità popolare siciliana. «(…) I primi germogli del grano – scrive Antonino Cusumano –, o di altri cereali, emergendo dalla terra erano infatti il segnale della rinascita del mondo. Di questa concezione ciclica della vita, il seme, e in tutte le civiltà arcaiche il grano in semi, era sentito come una metafora visibile e concreta» (in Pane e festa. Tradizioni in Sicilia, 1991). Il grano, per la sua vicenda di morte apparente – la semina – e di vita – la rinascita in frutti ricchi di contenuto prezioso per il destino delle comunità cerealicole –, costituisce un elemento privilegiato per rappresentare la vittoria della vita sulla morte ovvero il «potere di sconfiggere l’opposizione primaria vita vs morte». La storia colturale del grano diventa quindi metafora concreta della vita, indizio e riferimento, nel tempo, di vicende legate al mito: il dramma di Demetra, reincarnato poi nel suo processo evolutivo in quello di Cerere – solo per indicare uno dei molteplici esempi –, è una trasposizione simbolica della passione del grano. Inoltre, il ciclo del grano, nelle sue varie articolazioni, dalla semina alla produzione di alimenti, rinvia metaforicamente alle relazioni con le divinità e con le feste rituali volte a promuovere la rinascita della natura e il tempo legato alla scansione ciclica dell’anno agrario. Al termine dei riti della Settimana Santa, in cui si rappresenta la drammatizzazione della morte, la Resurrezione di Cristo viene celebrata nella domenica pasquale che segue l’equinozio di primavera, quando la natura si manifesta nello splendore della sua rinascita e nei segni della sua fecondazione. A Roma, nella vigilia e nel giorno d’inizio dell’equinozio di primavera, si celebrava la morte e la resurrezione del dio frigio Attis. Cerimonialità e ritualità nella festa di Pasqua assumono com’è noto, in ambito popolare, aspetti spettacolari, di profondo coinvolgimento delle comunità al dramma della “sacra vicenda” della morte e resurrezione del Dio fatto uomo. Il tempo “cerimoniale “ o “sacro” è segnato da una serie di rituali processionali in cui è dominante l’intenzione di “ri-produrre” eventi già verificatesi. Questo aspetto, che potremmo definire di “mimesi”, si evidenzia in tutta la sua forza nelle processioni che hanno il carattere peculiare di drammatizzazione degli eventi che portarono al sacrificio del Golgota. Altri riti e processioni (quale quella della Madonna alla ricerca del Figlio morto, che si conclude la domenica con l’incontro – ncuontru , scuontru – con il Cristo risorto) sono altresì una chiara simulazione di motivi ricorrenti nelle mitologie e culti legati a culture arcaiche a regime cerealicolo. Nella struttura simbolica della festa il “livello agrario” e la sua “rifunzionalizzazione cristiana”, come rileva Fatima Giallombardo, sono connotati dal laurieddu (simbolo della rigenerazione della natura e del tempo) e dai pani e dolci. U laurieddu, i “giardini di Adone”, consiste nel grano, o talvolta anche in altri elementi vegetali fatti germogliare al buio e deposti nei “sepolcri” il Giovedì Santo, secondo un’usanza ancora viva. La modellazione dei pani rituali si esprime in una rappresentazione figurativa in cui prevale, insieme alle forme recanti segni della liturgia cristiana (pani râ puostuli, tinagghia, cruni rô Signori, simboli, quest’ultimi, della crocifissione), l’elemento panciuto e gravido, dato dalla presenza dell’uovo. La forma rinvia a significati espliciti: la fecondità, la speranza, la rinascita, con richiami evidenti alle antiche radici precristiane della festa. L’uovo simboleggia la cosmogonia, il rinnovamento periodico della natura, la rinascita e la ripetizione. Protagoniste creatrici di queste elaborazioni, veri e propri esempi di arte plastica effimera, sono le donne, capaci di esprimere una sapienza, una manualità e «una tecnica del figurare che è assai prossima a quella dello scolpire e del decorare e, ai livelli più alti, del cesellare» (Antonino Cusumano). Il pane pasquale differisce dal modello quotidiano per assumere i caratteri dell’eccezionalità e dell’unicità del consumo, legati alla “dimensione altra del tempo festivo”. Oltre che “buono da mangiare” diventa, come sostiene Cirese, anche “buono a comunicare”. La consuetudine dei pani pasquali, notevolmente affievolita se non del tutto scomparsa, patrimonio oramai della memoria collettiva, legata alla ritualità del donare, si differenziava in relazione agli elementi strutturali (azzimo, lievitato, decorato, non decorato, con o senza uova colorate, e così via) e alle forme, che potevano essere figurate o non figurate (zoomorfe: palummeddi, cavadduzzu, puorcuspinu, aceddu; antropomorfe: pupi cû l’ova; oggettuali: cannilieri, panarieddu, cannateddu) alle quali corrispondono diverse denominazioni a seconda delle diverse aree linguistiche. Il pane, a sua volta, si differenziava per elementi, forma e contenuto (uno o più uova), in relazione a chi veniva donato: bambini , bambine, genitori, fidanzati, suoceri.


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