Mercoledì
13 febbraio 2008, a casa Sanfilippo, il presidente del Parco archeologico
e paesaggistico della Valle dei Templi, Rosalia Camerata Scovazzo,
il direttore del Parco, Pietro Meli, il soprintendente del Mare,
Sebastiano Tusa, hanno presentato "La mezza colubrina di San
Leone”.
Il cannone in bronzo, una mezza colubrina bastarda ascrivibile alla
seconda metà del secolo XVI di fabbricazione genovese, è
stato rinvenuto nelle acque prospicienti la località di San
Leone, ad una distanza di circa m. 300 dalla costa in prossimità
della foce del fiume Akràgas e ad una profondità di
circa 7 metri.
Recuperatonel giugno del 2006 in mare di fronte a San Leone, presenta
la tipica conformazione delle bocche da fuoco prodotte dai fonditori
genovesi intorno alla metà del Cinquecento.
S i tratta di una Mezza Colubrina bastarda, tipico pezzo che armava
le navi mercantili spesso impegnate nel trasporto del grano siciliano
verso i porti del Mediterraneo occidentale, che dovevano difendersi
dagli attacchi di pirati e corsari. Essa sparava un proiettile sferico
di ferro, pesante circa 5 chilogrammi, con un tiro efficace che
poteva superare i 1000 metri e infliggere seri danni alle veloci
imbarcazioni a remi, fuste e galeotte, che formavano le flottiglie
barbaresche.
L'interesse del ritrovamento riguarda sia la rilevanza storica del
sito, sia la caratteristica, decisamente rara nella storia di questo
tipo di reperti, della presenza dell'affusto insieme al cannone.
Le condizioni marine difficilmente consentono di conservare a lungo
le parti lignee di questo tipo di manufatti. Ma, nel caso del cannone
di San Leone, la composizione argillosa del fondale ne ha garantito
la conservazione in ambiente non soggetto a degrado biologico. Nel
giro degli ultimi anni però, probabilmente in relazione al
mutare delle correnti nella zona e dunque del fondale, considerando
i continui interventi di modifica delle strutture a mare del molo
della vicina San Leone, il cannone e il suo affusto sono stati via
via privati dei depositi che li avevano protetti e occultati, così
da essere maggiormente esposti sia a fattori di degrado che alle
spoliazioni.
Il recupero, realizzato dalla Soprintendenza del Mare in collaborazione
con il nucleo sommozzatori della Guardia di Finanza e La Lega Navale
di Agrigento, è stato determinato dallo stato conservativo
in cui versava la parte lignea del reperto.
La storia di questa parte del territorio agrigentino si caratterizza
per il rapporto con il mare, in tutte le epoche e in tutti gli ambiti
disciplinari di ricerca, storico-politico, artistico, naturalistico,
antropologico.
La storia dei grandi accadimenti politici di eco europeo ha lasciato
le sue traccie in quelle acque, come dimostrano i rinvenimenti di
cannoni a Licata e più recentemente a Sciacca e Lampedusa,
questi ultimi riferibili, entrambi, alle vicende storiche che durante
il XVI secolo impegnarono rispettivamente i sovrani Carlo V e Francesco
I per mantenere la supremazia della corona nel Mediterraneo.
In età moderna trae incremento anche il fenomeno delle incursioni
barbaresche, con le temutissime scorribande che partivano dagli
approdi nordafricani verso i dirimpettai litorali agrigentini. Di
tali brani di storia sociale, danno testimonianza, fra le altre,
la fitta rete di torri di guardia che ancora oggi punteggia la costa.
La storia di questo tratto di mare prospiciente al Canale di Sicilia,
si popola in età moderna di numerose presenze riconducibili
da un lato alle frequenti scorrerie e sbarchi di pirati e corsari,
dall'altro ai traffici delle marinerie straniere.
Il restauro effettuato dalla Ditta Giovanni e Lorenzo Morigi di
Bologna, ha comportato, per la particolare natura del manufatto
e per le vicissitudini conservative del bene, da oltre quattro secoli
giacente in ambiente subacqueo, due momenti distinti di intervento
sulla parte metallica e sul legno bagnato, quest,ultimo effettuato
presso il Laboratorio di restauro 'Legni e segni della Memoria'”
di Salerno.
Il primo intervento sul metallo ha comportato la rimozione delle
incrostazioni che rivestivano la superficie di bronzo. Le parti
più grossolane sono state rimosse con scalpelli di bronzo,
al fine di evitare danni alla superficie . Per le incrostazioni
più aderenti sono stati utilizzati percussori elettromagnetici,
con punte in ferro dolce e per i dettagli decorativi e le parti
più difficilmente raggiungibili un ablatore ad ultrasuoni
. L’ultimo intervento messo in atto per completare la rimozione
dei frammenti inseriti nella porosità del bronzo è
consistito nella sabbiatura morbida eseguita con tutulo di mais
macinato gettato con aria compressa sulla superficie. Dopo la rimozione
delle incrostazioni il manufatto è stato sottoposto a lavaggio
con acqua nebulizzata, per 24 ore.
La parte superstite dell’affusto ligneo al momento del suo
recupero presentava numerosi segni di attacchi di organismi xilofagi.
L’aspetto di colore rossiccio del legno indicava, inoltre,
la presenza di sali di ferro, dovuta alle parti metalliche riscontrate
all’interno del legno.
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