Le dipendenze del nostro scontento.
Ciò che ci rende schiavi.
La nostra è un'epoca nella quale sempre più si è smarrito il senso della libertà, del saper bastare a se stessi. Chi può affermare, oggi, di conoscere quest’ultima dimensione? Nella modernità che ci avvolge come placenta, per una sorta di cieco destino cosmico siamo come condannati a percepire la realtà a noi esterna attraverso il filtro delle dipendenze: da oggetti, da pulsioni, da desideri e da paure. Di fatto, siamo tutti, chi più chi meno, ormai resi impermeabili ad un rapporto “naturale” con il mondo, incapaci di percepirne l'intima bellezza, le sfumature molteplici, le variegate modulazioni, quelle che ad esempio permettono a un indigeno dell'Amazzonia ma anche (forse ancora per poco) a un pastore dei Nebrodi di gettare, attraverso l'atto percettivo del silenzio e dell’attenzione, cauti scandagli conoscitivi sulla natura, sugli animali e sugli uomini che lo circondano.
Siamo dunque diventati sordi e indifferenti rispetto alle dimensioni gratuite dell'esistenza e, ciò che è peggio, non siamo disposti, non lo siamo più, a conferire loro un qualche valore, forse perché per acquistare udito e cuore atti a percepirne l'essenza occorrerebbe esser pronti a sottoporsi a un duro regime, essendo condizione essenziale alla percezione di ciò che è silente la capacità - e la volontà - di porre in discussione la propria loquacità, il proprio fatuo chiacchiericcio, i propri rumori.
Nel 1920, tre anni dopo la rivoluzione d'ottobre e due prima di quella fascista, Sigmund Freud pubblicò una monografia, Al di là del principio del piacere, destinata a divenire uno dei capisaldi della ricerca psicanalitica. In essa Freud, allontanandosi da quella che fino ad allora era stata la sua proposta ermeneutica, ipotizzava che accanto al principio del piacere (eros) nell'uomo fosse altrettanto fortemente, e forse ancor più fortemente, radicato un principio di morte (thanatos), una pulsione distruttiva, una "coazione a ripetere" che induceva gli esseri umani a rivivere ossessivamente episodi sgradevoli del proprio passato.
Se ci riflettiamo, parrebbe proprio che a tale istinto di morte siano da ricondurre gran parte degli atteggiamenti che costellano la nostra esistenza quotidiana, fatta di dipendenze che, oltre a renderci schiavi, ci fanno anche infelici, tristi, chiusi agli altri, sostanzialmente incapaci di costruire “insieme”.
Nel nostro strano pianeta, in cui non può concepirsi esistenza che non sia dipendente da una molteplicità di fattori (sesso, droghe, denaro, potere, case, automobili, gratificazioni di vario genere) esistono - a ben vedere - due principali categorie di umani. La prima è composta da tutti quelli che pensano alla vita, alla natura, agli stessi propri simili come a dei "doni" (o a delle risorse, o a delle opportunità) da Qualcuno elargiti perché si possa riuscire, tutti insieme e in qualche modo concordi, a sortire qualcosa di decente in questo pezzetto di mondo e di storia che si è chiamati ad abitare e vivere. La seconda è invece affollata di individui che, in seguito a chissà quali oscuri traumi infantili, si sono fatti persuasi che il pianeta terra sia una sorta di supermarket dove chi ha denaro e potere sufficienti possa acquistare qualunque cosa o persona; possa comprare armi organi o ragazzine da stuprare, decidere dei destini di interi popoli, condizionare le volontà, plasmare i modelli di comportamento, modificare i sistemi di valori, creare i sogni e i desideri, dare infine, a capriccio, la vita e la morte. Nella prima categoria (che, evangelicamente, si potrebbe definire quella dei poveri di spirito) si inserirebbe senz'altro, tanto per fare un esempio, Gino Strada, il medico che cura i feriti e mutilati di guerra senza chiedersi a quale esercito essi appartengano. Nella seconda …… beh, nella seconda c'è un tale affollamento che vengono in mente le immagini apocalittiche del giudizio finale, come ce le ha offerte quello stralunato, straordinario poeta di Roberto Benigni in alcuni suoi memorabili monologhi.
Parlando di dipendenze, si pensa solitamente a quelle relative alle sostanze stupefacenti; esiste però un altro gruppo - estremamente ampio e variegato - di dipendenze non riconducibili all’uso di droghe.
In questi ultimi anni sempre più spesso è emerso il problema di nuove dimensioni della dipendenza, di quelle cioè che vengono definite nel mondo anglosassone le "new addictions". Si tratta - come ognuno potrà osservare direttamente dalla vita quotidiana - di comportamenti non sottoposti a censure di tipo giuridico, e anzi in genere socialmente accettati o tollerati: le dipendenze dal gioco d'azzardo, da internet, dallo shopping, dal lavoro compulsivo, dal sesso e dalle relazioni affettive scomposte; realtà tutte queste che, ricercate o esercitate in modo ossessivo, irrelato, privo di aperture verso valori da condividere e anzi compulsate in maniera solitaria e “avara” (nel senso che Don Milani attribuiva a tale termine), anziché svolgere un ruolo sociale, comunitario, finiscono con l’isolare l’individuo rendendolo schiavo. Non è detto peraltro che gli effetti derivanti da tali dipendenze siano meno devastanti di quelli che provengono dal consumo delle droghe.
Cosa ci rende dipendenti, quali sono le nostre zavorre? E perché tali dipendenze, piuttosto che gratificarci ci rendono “scontenti”, tristi, sostanzialmente incapaci di apprezzare la nostra esistenza e il mondo in cui viviamo?
Il Cortile dei Gentili di gennaio cercherà di porre interrogativi su tali tematiche, non pretendendo di offrire risposte certe e indolori (come forse preferirebbe il clima di allegro edonismo che oggi viviamo) ma sforzandosi di suscitare dubbi e pensiero critico, oltre che libertà di circolazione delle idee, come si conviene ad un’Agorà.
I relatori-introduttori del tema di questo mese saranno Girolamo Cotroneo, filosofo, professore emerito dell’Università di Messina, e Felice Scalia, gesuita, teologo e molte altre cose ancora …..
Sergio Todesco