Identità.
A cosa (e se) serve l’identità in un mondo che cambia.

Si è trattato di riflettere, per usare un’espressione crociana, su ciò che è vivo è ciò che è morto nel concetto d’identità o, come avrebbe potuto esprimere il problema un antropologo contemporaneo, sulle promesse e minacce dell’identità.
La questione identitaria è oggi più che mai centrale nella riflessione teorica contemporanea, ma suscita sentimenti e scelte di campo contrapposti. Antropologi come Francesco Remotti (Contro l’identità; L’ossessione dell’identità) ritengono che il concetto di identità sia sostanzialmente superato, da non promuovere, dannoso in quanto veicolante atteggiamenti culturali integralisti e chiusi al confronto. Altri autori pongono piuttosto l’accento sulle capacità aggregative del termine, in grado di fornire orizzonti condivisi e orgoglio di appartenenza.
I due relatori hanno sviluppato il tema fornendo ciascuno una prospettiva orientata verso l’una o l’altra opzione. Di fatto, ciò che è emerso è che l’identità non è una realtà data, né data una volta per tutte e quindi sempre identica a se stessa, ma piuttosto una realtà frutto di elaborati processi di costruzione, più o meno consapevole, sempre dinamici e sempre – in qualche modo – “contaminati”.
Se negli ultimi decenni si è venuto affermando un uso strumentale e perverso di tale concetto, ciò è da ascrivere forse alla sempre maggiore diffidenza che le culture e i gruppi umani hanno sviluppato nei confronti della diversità, in un pianeta in cui la globalizzazione ha vieppiù incrementato i conflitti e i dislivelli tra gli uomini, gli stati, i popoli.
Proprio per questo avvertiamo oggi l’esigenza di declinare la complessità delle “identità” in ogni direzione, decostruendo le dinamiche sociali e di potere che istituiscono l’identità come soliloquio autoreferenziale delle soggettività e come un’arma da puntare su chiunque esibisca tratti culturali diversi; per sviluppare invece le potenzialità umane, sulle linee di analisi e proposta politica che ci hanno insegnato, tra gli altri, antropologi come Ernesto de Martino (l’etnocentrismo critico; l’essere bene fondati sulle proprie radici, per potersi meglio aprire al mondo; il campanile di Marcellinara; il “villaggio vivente nella memoria”).
Si può dunque aspirare a lavorare alla costruzione di forme “buone” di identità, che occorrerà recuperare e mantenere alla fine di un necessario lavoro critico - urgente oggi più che mai - su tale attitudine innata ad esibire elementi simbolici di appartenenza. Rinunciare tout court al ricorso all’identità sarebbe forse come gettare il bambino insieme all’acqua sporca (come spesso gli uomini finiscono col fare).
Un dibattito, dapprima timido e via via sempre più partecipato, ha fatto seguito ai due interventi iniziali di stimolo.

 

 




   Giornale di Sicilia                                 15 gennaio 2014 pag. 17

   Gazzetta del Sud                               06 febbraio 2014 pag. 28



   Centonove                                         07 febbraio 2014 pag. 25

   Centonove                                         07 febbraio 2014 pag. 30

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