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Intervista a Joseph Di Benedetto: italiano di New York.

DiBenedetto.jpg (6215 byte) Italiano d’Oltreoceano, perfettamente integrato nella realtà statunitense eppure legatissimo alle radici siciliane. Così si descrive Joseph Di Benedetto, rappresentante del COES (Centro Orientamento Emigrati e Famiglie) per lo Stato di New York, figlio di un palermitano e di una triestina, italoamericano bilingue. La sua perfetta conoscenza dell’italiano, molto rara fra i figli dei nostri emigrati, deriva in gran parte dall’amore per la Sicilia che la sua famiglia gli ha trasmesso.

Come molti suoi coetanei, dai genitori ha imparato però soprattutto il dialetto. La decisione di apprendere l’italiano è legata invece al suo sentirsi ponte fra due culture diverse. Statunitense per nascita, Joseph interpreta le sue radici europee come un valore, che altri non possiedono, costituito da gusto, abitudini, modi di pensare.

Avvocato civilista, esercita la professione nella "Grande Mela" ma è innamorato dell’Italia dove torna appena può.

Cosa significa sentirsi, allo stesso tempo, italiano e americano?

"Dipende innanzitutto dalla storia personale. Ho trentadue anni e sono nato a New York. Mio padre, Stefano, è palermitano mentre mia madre, triestina d’origine, è cresciuta a Catania. Mio padre venne qui nel ’58. Sembra che mio nonno avesse scritto alcune lettere al governo americano per chiedere il permesso di emigrare e che gli USA rispondessero di sì dopo quattro anni.

Dei quattro fratelli Di Benedetto i due maggiori partirono col padre, seguiti dai minori qualche tempo dopo. Erano panettieri e una famiglia amica li mise a lavorare in una pizzeria – tipico lavoro degli italiani! - e loro, in due o tre anni, hanno raccolto i soldi per aprire la loro pizzeria. All’arrivo mio padre aveva 17 anni, non parlava in inglese, stava in famiglia oppure con altri immigrati nel quartiere. Così ha conosciuto mia madre che era arrivata anche lei da grande, a 15 anni.

Si sono sposati quando mia madre aveva 17 anni. Hanno avuto tre figli. Mia madre parlava un po’ d’inglese ma mio padre neanche una parola. L’inglese, in effetti, l’ho imparato a scuola e mi sono trovato perfino male per i primi due anni, perché per me, cresciuto fra parenti e vicini italiani, era una lingua straniera. E questo succedeva meno di trent’anni fa! Ogni due anni, con i miei genitori, tornavo a Palermo e così ho mantenuto i rapporti con l’Italia sviluppando questa passione per la cultura italiana, per la moda e per l’arte, per tutto quello che mi fa sentire italiano. Il punto è che mio padre parlava siciliano, come del resto quasi tutti intorno a me, mentre io volevo proprio imparare l’italiano. A sedici anni ho cominciato comunque a viaggiare da solo. Se posso, fermandomi a Roma e Palermo, torno anche tre volte l’anno, mai meno di una volta e ho molti amici"

Ti è utile la conoscenza dell’italiano per il tuo lavoro?

"Purtroppo, l’italiano non mi serve molto per fare l’avvocato civilista. Quando posso, comunque, cerco di aiutare gli italiani che hanno bisogno di consulenza e trovano difficoltà con la lingua. Così si spiega anche il mio impegno nel COES. Lavoro per mantenere i rapporti fra i siciliani residenti in questa zona e la Sicilia. Anni addietro ho conosciuto il disk jockey di una stazione radiofonica religiosa che mi ha chiesto di parlare una volta la settimana, ogni sabato quindici minuti in Italiano, e così ho studiato un po’, ho fatto pratica"

Perché fra i tuoi amici italoamericani è così difficile trovare bilingui?

"Il problema è che gli emigrati nati in Italia sono quasi tutti anziani e i loro figli sono già americani. L’italiano di seconda generazione, negli States è già inserito, gli "emigrati" intesi come tali sono tutti sudamericani, indiani, ghanesi: vengono qui e stanno fra loro perché non capiscono la lingua, esattamente come accadeva agli italiani fino a trenta anni fa. L’italiano che sta qui da sessant’anni conosce la lingua. L’eccezione è costituita dagli anziani, che, arrivati già adulti, non hanno mai imparato a parlare l’inglese. Si sono sempre appoggiati ai figli che fungevano da traduttori, hanno continuato a vivere e lavorare in quartieri italiani.

Come si fa a mantenere i rapporti? Io sono forse l’unico fra gli italoamericani che conosco cui i genitori hanno insegnato l’italiano, sia pure misto al dialetto. Gli altri genitori volevano essere

 

americani, orgogliosi di inserirsi e della loro nuova vita e in casa imponevano ai figli l’uso esclusivo della lingua inglese".

Qual è l’immagine più diffusa italoamericani negli USA?

"Un americano, anche figli d’italiani, ha, in genere, un’idea negativa di cosa sia "essere italiano", lo stereotipo diffuso è negativo. L’italiano è considerato una persona un po’ volgare, priva di classe, forse mafiosa. Sì, è uno stereotipo duro a morire. Certo quelli che viaggiano, che vengono in Italia, poi mi dicono che gli italiani che hanno visto "sono come te, Joseph, tu sei diverso dagli italiani che emigrano in America". Certo New York fa eccezione, è una città cosmopolita, c’è gente che ha girato il mondo, l’idea negativa degli italiani è più diffusa nella provincia americana, dove c’è gente che ha studiato né si è mai confrontata con europei, non conosce gente straniera e allora crede che l’italiano sia quello che vede in tv, un po’ ignorante, un bulletto. Chi invece viaggia s’innamora degli italiani, specialmente dei meridionali che sono particolarmente ospitali ed affettuosi: non c’è nulla che non facciano per farti sentire a casa tua".

In che senso ti senti diverso rispetto ad altri italoamericani?

"L’italiano che non è cresciuto come me non ha il senso della storia e delle radici. Sentirsi italoamericano significa avere un valore, sentirsi parte di una tradizione. Io mi sento italiano, perché i miei genitori sono italiani, perché conosco la lingua e i posti dove sono nati e cresciuti i miei antenati, ho un’idea della mia cultura d’appartenenza, della storia della Sicilia, in particolare. Se non coltivi questo retroterra sei soltanto americano, appartieni a questo grande paese che è, per sua natura, un insieme di razze ed etnie".

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