Il Bellomo: uno scrigno di luci e di cromie
Michele Romano
Università di Catania
In questa nuova e rivisitata veste la raccolta della Galleria Bellomo mostra, se pur in sintesi, i momenti più salienti del suo itinerario storico-artistico, quel dedalo immaginifico che riscopre le luci e le cromie della storia urbana e mecenate di Siracusa.
Un aulico spazio chiesastico accoglie i frammenti artistici della storia isolana, dal paleocristiano al presepe ottocentesco, una fucina di immagini che suscitano un certo interesse nel fruitore attento.
Un labirintico percorso che si snoda nella settecentesca navata della chiesa del Ritiro, per poi trasmutarsi in aule di creatività artistica, quando già nel lontano 1866, con la legge di soppressione dei conventi e monasteri, l’impianto religioso si trasforma in sede pubblica statale e in particolare, nel 1883, in Scuola di Arte
applicata, luogo di produzione artistica, di manifattura artigianale e sede di studio per le maestranze aretusee.
Una scuoletta d’arte, la definì Camillo Boito, che elaborava con grandi profitti, grazie alla direzione di Giovanni Fusero, i futuri segni di una generazione artistica, una realtà scolastica che dall’ebanisteria alla scultura, dalla pittura alla decorazione ha prodotto e produce, nella città di Archimede, una schiera di giovani artisti che rendono chiaro e vivo il legame con la collezione d’arte medievale e moderna della Galleria Bellomo.
Una collezione civica e regionale che oggi presenta,in questa aulica sede, tra sacro e profano, i segni indelebili di una storia dell’arte civica e mediterranea, un poliedrico unicum di luci e cromie, tra la lucentezza dell’islamica ceramica a lustro alle cromie dei retabli iberici o catalani della Camera Reginale.
Un ludico e dinamico labirinto visivo tra scultura lignea e lapidea, tra corredi argentei e plastiche di cera, un commisto di arte e aulico artigianato, dove vivaci colori vascolari e tessuti con orditi in oro e argento,segnano l’elevato mecenatismo di una città d’arte, il Bellomo in città, un microcosmo nel macrocosmo urbano di Ortigia.
In particolare, questo saggio tematico intende rivisitare alcuni aspetti quasi inconsueti che si celano nella preziosità della raccolta museale della Galleria Bellomo. In particolare, già dalla prima sala un manufatto marmoreo mostra le sue iconografie di origine islamica. Due leoni e una palma una preziosa opera dalle policrome tarsie marmoree e di pasta vitrea (sec.XII), un fascinoso richiamo alla stilizzazione del Paradiso islamico, paralleli a quella narrazione musiva della Sala di Ruggero nel Palazzo dei Normanni a Palermo, dove gli elementi zoomorfi raffigurati, sempre intramezzati da un albero (palma), sono contrapposte in coppie rigorosamente geometriche. Una luce e una cromia dorata che rievocano le ricche decorazioni dei colori dell’Islam, quella visione idealizzata di un Paradiso narrato nel Corano, e che in Sicilia trova il suo splendore nella ricca decorazione musiva palermitana, un alfabeto di “figurazioni tarsiche di animali”, quella matrice iconografica fatimita, che intravede nella palma il simbolo della rinascita e della purezza, sicuro richiamo alle decorazioni del palazzo califfale del Cairo (X secolo) e l’impianto decorativo della grande moschea di Damasco in Siria.
Nella seconda sala, in una nicchia a sinistra, si intravedono una serie di manufatti ceramici, di elevata preziosità tecnica e iconografica, quella ceramica a lustro che ha reso per anni la Sicilia medievale, terra di produzione d’arte e cultura islamica. Questi piatti delle officine valenziane a lustro metallico, fanno parte di quella ceramica dorata, loza dorada di Paterna in Spagna. La preziosità di questa tecnica, che era già nota in Mesopotamia nel IX secolo a.C., giunse nella penisola iberica a partire dal X secolo grazie agli arabi, che introdussero nel Mediterraneo questa raffinata tecnica decorativa, che consiste nell’applicazione di una sottilissima pellicola di particelle metalliche che in seguito alla cottura determina effetti iridescenti policromi a seconda del metallo usato. L’elevata preziosità di cromie luminescenti è data da una miscela di terra refrattaria cotta, ossidi e sali metallici, dal rame al ferro, dal manganese al cobalto in tutto sciolto in acqua e aceto. Questa produzione, di non solo ceramica, ma preziosità tecnica, dal XIII secolo si produsse in Spagna e giunse in Sicilia, una produzione,quasi industriale, che mostra però delle raffinate lucentezze metalliche, che sicuramente esulano dal semplice prodotto ceramico isolano. Infatti, la ceramica a lustro mostra una decorazione dalla lucentezza bruna con riflessi metallici colorati su vetrino piombifero bianco opacizzato allo stagno, una poliedricità cromatica che cambia e si trasmuta secondo la posizione dell’osservatore e della fonte luminosa, un manufatto dal decoro bruno metallico che presenta dei riflessi cromatici blu e arancione in visione speculare.
Ma di particolare rilievo, non solo per la tecnica della cromia vitrea a lustro, è la ricca decorazione e morfologia del manufatto ceramico, una decorazione vascolare, che si trasmuta in figurazioni zoomorfe, fitomorfe e araldiche e dalle cornici segmentate. Nel bacile con la figurazione di un animale passante è chiara la provenienza ispanica e islamica, soprattutto per la stilizzazione della figura che rievoca quell’alfabeto iconografico dell’immaginifico, di animali fantastici che narrano con il movimento del corpo “qualcos’altro rispetto a ciò che gli sta davanti”.
Sicuramente un prodotto aulico che si inserisce in questa serie di manufatti con narrazioni araldiche è il piatto che mostra uno stemma gentilizio con un giglio in capo e due minori in punta (un fiore simbolo di potenza e sovranità) e con lo scudo sannitico-ispanico arrotondato alla base.
Nella stessa sala, alla parete destra, sono collocati una serie di dipinti su tavola di fattura catalana del XV secolo, polittici, retabli e pale d’altare che segnano la presenza a Siracusa di una linea pittorica ispanica grazie alla Camera della Regina o del Consiglio Reginale. Un medioevo mediterraneo che mostra il suo splendore di lucentezza nella bidimensionalità dell’oro e nella tecnica a rilievo o a pastiglia con l’inserimento della cornice architettonica. Nella Madonna in trono col Bambino, Santa Eulalia e Caterina d’Alessandria il presunto autore Pedro Serra (sec.XV), mostra tutte le caratteristiche della scuola iberica, un certo bizantinismo nell’uso dell’oro e nella cornice ad archetti gotici, una severa impostazione delle figure, del trono e nella planimetrica veste della Vergine. Un sicuro richiamo alla luce che si intravede nell’opera “Verge, Infant i angels musics” di Pere Serra (Barcellona dal 1357 al 1405), un’arte “…dels Serra i de l’escola que aquests crearen ha dexiat testimonis plàstics de gran qualitat, i formes plenes de color, bellesa i sensibilitat…”.
Bellezza e sensibilità grazie alle cromie e alla luce del fondo oro, una ricca preziosità quasi certosina che scompare nel naturalismo quattrocentesco, un miniaturismo medievale esclusivamente catalano e mediterraneo, dove l’essenza del sacro e del mistero si evince dalla leggerezza della linea e non della forma, uno spazio della luce e dello spirito.
Nella terza sala si presentano poliedriche manifatture artistiche, dalla scenografica e seicentesca statua lignea di S.Biagio alle fantastiche cromie dei paliotti intarsiati degli altari barocchi. Ma l’attenzione ricade, sull’opera del maestro della pittura del realismo cromatico a Siracusa, il Martirio di S.Lucia di Mario Minniti. La rossa cromia del mantello, che incorona l’estasi del martirio della vergine siracusana, è il timbro emotivo, e quasi non più realistico, della rivisitazione caravaggesca del Minniti. Il messaggio intrinseco, nell’oscurità dell’opera, si rende carico di luce e di cromie,in particolare nella veste della santa e nel panneggio dell’aguzzino, forti richiami coloristici alla tardamaniera tosco-romana. Ma sono il gesto e il pathos fisiognomico che rendono aulica l’opera di questo artista isolano, una lectio pittorica a quel corpus iconografico che la chiesa controriformata dettava, come monito e invito all’artista, nel rendere umana e divina, la raffigurazione del martirio come chiara espiazione dalla terra alla fede.
Ma di particolare rilievo,per la sua sacrale posa, per la fisiognomica, umana e divina, e soprattutto per la preziosità e lucentezza della sua veste, è la seicentesca statua lignea di S.Biagio, un sacro oggetto dipinto in oro e che mostra nella sua visione ieratica una dinamica posa in trono, una ricerca di quella sensibilità umana. Luce e cromia sono i segni del divino, nella magica visione del sacro, una statua che emana luce, non dalla lucentezza di una foglia o lastra argentea, ma da un plastico legno indorato di santità.
La policromia della materia è la sicura chiave iconografica della Chiesa barocca, e in questa sala si evidenzia nelle due lastre di ardesia intarsiate , con policromie a stucco, due paliotti d’altare che documentano la vera maestria dei maestri lapicidi siciliani, ignoti autori di maestranze isolane, dove rendevano nell’orror vacui della lastra nera di ardesia, la policromia di elementi naturalistici, dalle conchiglie ai germogli di fiori, una grottesca rivisitata dalla luce variopinta del barocco. Ma dalla ricca decorazione emerge un timbro di illuminata committenza, lo stemma araldico della nobile famiglia Landolina di origine normanna e che giunse in Sicilia con la corte di Ruggero. Lo stemma mostra la corona di marchese, con lo scudo sannitico accartocciato e con svolazzi, mentre l’arma araldica ospita al capo una fascia di tre gigli d’argento e al centro un partito d’argento e di nero incappato dell’uno nell’altro.
La sala successiva ci introduce alla vera lucentezza e preziosità della manifattura siciliana, in particolare, ai mistici arredi della liturgia cattolica, dal calice alla pianeta. Quell’aulicità di ori e argenti, che ha reso mistica la preziosità della fede, come la policromia dell’Ostensorio trapanese, dove la ricercatezza della miniatura decorativa nasce dall’abilità dell’artigiano-orefice, che ricopre la funzione del manufatto eucaristico con la labirintica decorazione corallina. Un rosso-corallo, che documenta la simbologia mistica dell’iconologia sacra, attributi di una cromo-sacralità, che si trasmette e si traduce anche nella vestizione del clero,che mostra in questo tessuto eucaristico, la Pianeta,riccamente decorata da un corallo dall’iconografia fitomorfa. Un paramento sacro completo di velo da calice, manipolo e borsa, ma di particolare preziosità è la ricchezza cromatica della fascia centrale verticale della pianeta, impreziosita nel suo verso da una labirintica decorazione a rilievo, dove la cromia del corallo si intreccia con preziosi tessuti e fili in argento lamellare. La lucentezza di trame dal fondo di seta e taffetas, con intrecci quasi metallici, rendono l’insieme di una lucentezza quasi diafana e dove la maestria della maestranza tessile, sicuramente trapanese nell’uso del corallo, mostra un manufatto di elevata fattura artistica e religiosa.
Proseguendo,per questa stessa sala, si incontrano alcune preziose tessere della maestria dell’artigianato siciliano, dal presepe scenografico in vetrina al plastico in avorio della città. Preziosità e diafana materia, la cera fugace e modellata dal tempo, segna la delicata plasticità dei maestri scultori, dal siracusano Zummo, che mostrava la relatività della vita umana con apparenti mostruosità,quasi scientifiche, al Presepe, che qui si presenta, opera di fra’ Ignazio Macca, modello di una scenografia tardo settecentesca. Ogni anfratto naturalistico è la chiara commistione tra natura e realtà umana, ogni gesto è misurato in un coro di voci che mirano alla centralità di una sacrale famiglia, che emerge grazie a delle vorticose raggiere di luce e trasparenza. La maestria dell’artigiano, si evince dalla miniaturizzata realtà, un microcosmo di quotidianità, che traspare dalla diafana cera di luce, ogni volto e gesto è arricchito da questa cerulea materia dell’arte, la plasticità come pura fisiognomica dell’anima.
Così come, con materia preziosa e alquanto delicata si mostra la visione del Plastico della città Siracusa dove una teca tutela con pura trasparenza il delicato mosaico di tessere in avorio, una visione fantastica e misurata dell’isola di Ortigia, uno skyline variegato, che però la monocromia dell’avorio rende luminoso e accecante, una luce che irradia le case e le presenze architettoniche monumentali. Un delicato esempio e modello di visione a volo d’uccello, dove l’insieme e il paesaggio d’acqua dominano sul costruito. Una visione apparentemente tridimensionale della città aretusea, ma che invece mostra una magica visione d’insieme, che forse la maestria di frà Pietro Fortezza voleva tradurre in una prospettica bellezza dell’isola, in quella trasparenza di volumi non vissuti ma immaginati nel labirintico dedalo di Ortigia.
Ed è proprio questa visione di luce e labirintica trasparenza che la collezione museale della Galleria Bellomo mostra la sua vera poliedricità, un insieme di auliche esperienze artistiche e manifatture artigianali. Uno scrigno, un tesoro urbano, una wunderkammer di luci e cromie, una visione variegata della produzione artistica, tra figurazioni sacre e preziosità quasi profane, un dedalo di arte e cultura.