La
molitura |
Il grano trebbiato veniva
solitamente trasportato in un magazzino e si conservava dentro recipienti
ottenuti con canne intrecciate (cannizzeri) o nei saravuli.![]() ![]() |
Dal mucchio veniva prelevata col mienzu tumminu, contenitore che veniva preso come unità di misura (un tumminu corrispondeva a 16 kg, e ad un sedicesimo della sarma; un quarto di tumminu corrispondeva invece a un munneddu, munniedru, mentre una coffa equivaleva a un quarto di munneddu). File di muli (rrietini) forniti di bisacce e sacchi trasportavano il frumento; un carricu poteva riguardare sei tumuli di frumento, corrispondente a quasi cento chilogrammi. La paglia si confezionava in grosse balle, trattenute da una rete di corda a maglie larghe, e si depositava nella pagghiera. La macina del frumento si eseguiva in tempi limitati e comunque entro 4-5 mesi dal raccolto, a meno di perfette condizioni di mantenimento; alcuni contadini preferivano pertanto macinare, nel periodo di funzionamento dei mulini, piccole quantità per uso personale in quanto la farina era più disposta a guastarsi in caso di forte umidità dell'aria. Il prodotto veniva portato a braccio o a dorso di animale lungo le contorte trazzere fino al mulino, dove veniva pesato per determinare la quantità di farina da produrre il pagamento, su cui gravavano anche le tasse. Le operazioni si svolgevano spesso sotto l'occhio vigile del proprietario il quale voleva assicurarsi che gli fosse restituita farina nella quantità e qualità desiderate. |
Impianti![]() Nei secoli successivi si moltiplicò la presenza di questi impianti lungo le rive dei torrenti, e in particolare nei secoli XVI e XVII, quando in Sicilia si rese necessaria la messa a coltura di nuove terre e si registrò un aumento demografico. Nel 1606 nel solo territorio di Capizzi si contavano 48 mulini. Alla funzione di molitura si associò in alcuni di essi quella della follatura (paraturi) per la pressatura e la colorazione dell'orbace, ovvero della stigliatura del lino e della canapa. A determinare il monopolio erano i signori feudali o la Chiesa, mentre nelle terre demaniali tale facoltà dapprima spettò alle famiglie patrizie e in seguito ai rappresentanti della borghesia, che concedevano in gabella la gestione dell'impianto e del terreno per un certo numero di anni, con possibilità di pagare il canone tanto in denaro che in natura. Tra il XVIII e il XIX secolo forti imposizioni fiscali (tassa sul macinato) gravarono sulla precaria economia del territorio e delle comunità rurali. I mulini siciliani vennero progressivamente abbandonati a partire dalla prima metà secolo scorso; solo i più attivi introdussero aspetti di novità con le macine in granito scanalate e cerchiate provenienti dalla Francia (La Fertè). Con l'avvento del gas e dell'elettricità, si passò ai mulini azionati da motori elettrici e a vapore ('a cilindri') e dunque a processi di tipo industriale, segnale d'inizio, per molti edifici e canali di adduzione idraulica, di una progressiva rovina. Il mulino tradizionale Il tradizionale mulino idraulico collocato normalmente lungo i corsi dei fiumi dove avviene la captazione dell'acqua che lo raggiunge tramite brevi acquedotti in muratura, si compone di alcuni fondamentali elementi, quali la prisa, la saitta, la ruota e la mola. ![]() I manufatti architettonici sono costituiti normalmente da piccole unità monolocali (con annessa o meno abitazione del mugnaio, su livello rialzato rispetto al vano di azione della ruota idraulica. Sul retro, addossata al rilievo, è la torre di caduta dell'acqua (saitta) cui perviene il flusso dalle saje, talvolta regimentato dalla presenza di vasche di raccolta (ùrna, gurna, gebbia, giebbia). Il tipo di torre diffuso sui Nebrodi e sui Peloritani è verticale, alto circa 10 metri, con pareti leggermente scarpate, comprendente al suo interno il condotto forzato ('utti) ottenuto da blocchi quadrati con foratura troncoconica a restringimento progressivo per la tenuta stagna. Nell'area etnea e nel territorio centroisolano è diffuso anche il tipo di torre gradonata con anelli in pietra a giacitura fortemente inclinata. L'ugello di uscita (cannedda, vucca), largo da 8 a 10 cm e regolabile per mezzo di una valvola, dirigeva il getto trasversalmente sulle palette (pinni, palitti) della ruota orizzontale del diametro di circa due metri, alloggiata nel basso vano ad arco del cassu e collegata attraverso il mozzo (fusu) alle macine poste al piano superiore. La struttura molente poteva essere protetta da un rivestimento in legno (ncasciatu) e comprendeva la mola inferiore (mora suttana) fissa e la mola caritoia superiore, ruotante per la forza impressa dal mozzo. Al di sopra era fissata la tramoggia (tramoja), contenitore con terminazione inferiore a punta per la caduta del frumento da macinare; questo si insinuava attraverso l''uocchjiu' tra le mole, le cui superfici frizionanti venivano martellate per una migliore triturazione del frumento. La farina frammista a crusca, si riversava nel farinaru, cassetta in legno da cui si prelevava il prodotto per essere cernito e insaccato. |