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News del 11/05/2016

Una ricca raccolta etnografica a Palazzolo Acreide (SR)


Miei cari lettori, stamani il buon Freud mi ha cucinato uno scherzo, ma uno scherzo da maestro maestro! che ha fatto preoccupare non poco un mio vecchio amico il quale di nome fa Giovanni e di cognome Leone e di professione l’avvocato, che dio ne scampi! il cui sorriso è quello che ricordavo dai vecchi tempi del liceo, che non sai se è ironico, dolce o comprensivo. Gli arcani dei sorrisi! Ora vi racconto. Mi trovavo in quel di Palazzolo Acreide, oggi patrimonio dell’umanità. Dove sarà? Vi starete chiedendo. In provincia di Siracusa, a una quarantina di chilometri dal capoluogo. Questa è una ridente cittadina, pulitissima e luminosa a circa 700 metri sul livello del mare, che per le altimetrie della Sicilia è già un luogo abbastanza elevato. In origine fu un avamposto della Siracusa greca fondato dalla stessa nel 664 a.C. su un luogo elevato, Akrai appunto, per difendere la zona nei suoi confini meridionali. Poi piano piano la cittadina si ampliò e divenne un centro importante, tanto importante da avere un suo teatro, ancora oggi intatto e dove ogni anno si svolge il Festival Internazionale del Teatro Classico dei Giovani, cui si aggiungono il Bouleuterion (luogo in cui si riuniva il consiglio della polis), le latomie dell’Intagliata e dell’Intagliatella, un tempio dedicato ad Afrodite di cui resta solo il basamento nonché il Santuario rupestre di Cibele, dea della fecondità, risalente al III secolo a.C. che è, come ci testimonia Marinella Fiume in Sicilia Esoterica, “una sorta di sintesi delle iconografie e delle dottrine teologiche connesse al culto […] della Grande Madre”. Insieme a questi si possono ammirare altri importanti reperti che ognuno potrebbe vedere allungando il passo da Siracusa. Come molte altre città, anche Akrai fu distrutta e saccheggiata dagli Arabi, tanto per cambiare, ma, come si sa, la caparbietà è specifica dell’essere umano: la cittadina risorse dopo l’anno mille, non più nella parte alta, ma in quella bassa del colle Acremonte ove fu edificato anche, intorno al 1200, un castello i cui resti sono ancora oggi visibili. Gli Arabi non erano bastati a Palazzolo, ci si misero pure, insieme a sette, otto popoli che sciamarono per queste contrade, anche le calamità naturali. Un terribile terremoto distrusse la cittadina già nell’anno Domini 1542 e successivamente nel 1693 insieme a buona parte della Sicilia Orientale, che poi fu ricostruita in forme barocche, le quali diedero la fisionomia particolarissima a Siracusa, Noto, Avola, Palazzolo appunto, Catania, Ragusa, Modica, Scicli e tantissimi altri paesi. Secondo me il carattere un po’ indolente dei siciliani è dovuto alla mole di distruzioni, ricostruzioni e poi ancora distruzioni. È come se un individuo costruisse e distruggesse la propria casa per decine di volte. Alla fine ogni desiderio di edificare qualcosa gli viene meno. Ma lasciamo queste considerazione a chi ha più competenza di me e torniamo a Giovanni, al mio vecchio compagno di liceo e al nostro incontro in Corso Vittorio Emanuele. Ogni cittadina che si rispetti ne ha uno e quindi anche la nostra. Parlavo fitto fitto con lui, quando nel bel mezzo della discussione alzo lo sguardo e all’altezza di palazzo Pizzo, non il mio, evidentemente, ma di un mio molto lontano parente, chi ti vedo? Antonino Uccello, il professore Antonino Uccello, di altezza media, segaligno col suo naso pronunciato e i bei capelli quasi bianchi lisci e fluenti. “Toh, chi si vede?”, dico a Giovanni. “Chi?” Risponde. “Ma, il prof. Antonino Uccello”. Mi guarda preoccupato, l’amico… data l’età, pensando a una mia precoce demenza senile. Sorride incerto, non sa se manifestarmi il suo pensiero o glissare. Insito: “Giovanni, ma non è lui il nostro famoso etnologo?” Giovanni in effetti è imbarazzatissimo e con incredibile tatto dice: “Amica mia, non so se l’hai saputo, ma Ninì è morto da trent’anni!” “Alla faccia di Freud! Ho avuto un attimo di spaesamento.” “Di Anheimlich”. Risponde lui, pronunciando perfettamente la parola. Io non vi sono mai riuscita. Volete provare voi, lettori? Ora non mi resta altro che rassicurare l’amico sulla mia lucidità mentale, affermando che per un attimo spazi e tempi si erano volatilizzati e io ero una giovane studentessa liceale prima e universitaria dopo intenta allo “struscio” in corso Vittorio Emanuele, ove spesso la sera incontravo il professore Antonino Uccello. Questo nome alla maggior parte di voi lettori non dirà assolutamente nulla, ma per gli specialisti farà aprire tanto d’occhi e molti addetti ai lavori mi apostroferanno: “Ma, davvero hai conosciuto Ninì?” Certo che l’ho conosciuto. Lo ricordo sempre affaccendato per le campagne a cercare reperti etnografici o a comprarli quando le famiglie volevano disfarsene perché la “civiltà” della plastica, del truciolato con i mobili in serie, del petrolio, delle automobili, dei trattori e compagnia bella si sostituiva ai mobili di legno, ai recipienti di terracotta, alle stoffe tessute magari in casa e non vi sto a tediare con le innovazioni della “civiltà”. La civiltà! Beh, prima di condurvi come guida virtuale dentro la Casamuseo, dovete concedermi un po’ di attenzione perché vorrei darvi qualche delucidazione, per chi ne fosse meno informato, su due ambiti di studio che sono basilari nella costituzione di un museo di questo genere: l’etnologia e l’etnografia. Le parole stesse sottolineano il campo degli studi. Entrambe nate relativamente di recente, derivano dal greco e hanno in comune ètnos che significa popolo, mentre la prima ha in aggiunta il vocabolo lògos che significa discorso, la seconda ha in aggiunta graphein che significa scrivere. In altre parole l’etnologia è la branca che studia la cultura dei popoli soprattutto dove la scrittura è carente, la seconda ha la funzione di raccogliere, analizzare e descrivere i materiali trovati, che poi la prima ha il compito di elaborare, approfondire, trarre conclusioni. Il primo trattato di etnologia risale in effetti al 1859 a opera di Theodor Waitz, mentre il primo museo etnografico viene aperto a Berlino a opera di Adolf Bastian che lo diresse dal 1886 e fino alla sua morte. Questi viaggiò moltissimo e raccolse una mole enorme di materiale etnografico che poi lasciò alla sua città. Tra l’altro influenzò Jung a proposito dell’inconscio collettivo che in parole poverissime non è altro che il manifestarsi per mezzo di simboli di qualcosa di comune a tutti gli uomini. Ma non addentriamoci oltre in queste arcane cose, che nel contesto ci interessano poco e finirebbero per annoiare me e voi. Torniamo alle nostre tradizioni. Tra i miei lontani ricordi universitari c’era un testo che conteneva una lunga e articolata diatriba sul nome da dare alle tradizioni popolari, se folklore oppure tradizioni popolari. Il primo sembrava essere un termine avvantaggiato perché i primi studi erano stati fatti in Inghilterra e Germania. Infatti, in inglese folk vuol dire popolo e lore sapere, appunto perché tale branca si riferisce alla cultura popolare di una data regione nel suo insieme e quindi agli usi, ai costumi, ai canti, al poetare e così via. Ma le cose sarebbero semplici se folklore, tradizioni popolari, etnologia, etnografia e ora anche antropologia non rimandassero l’una all’altra confondendo un po’ le cose e le nostre povere idee, già tanto aggrovigliate a questo punto delle mie delucidazioni. Cerchiamo di fare luce. Personalmente userei tradizioni popolari, perché ovviamente italiano, ma in questo modo il campo si restringerebbe. Gli studiosi, che invece la sanno più lunga di me, articolano gli studi in modo più complesso tanto è vero che intorno al 1920 è invalsa la tendenza a fondere etnografia, etnologia con l’antropologia. Non abbiamo ancora detto di cosa si occupa specificatamente l’antropologia la cui etimologia è data da àntropos che significa uomo e logos, lo abbiamo visto, che significa discorso. Branca amplissima che studia l’uomo nei suoi più sfaccettati punti di vista dal sociale, al biologico, al comportamentale, al religioso e via dicendo. Quindi, l’antropologia sembrerebbe assorbire anche etnologia ed etnografia. Noi preferiamo tenere distinte le tre branche dando il compito di raccogliere reperti, documenti, dati, classificazioni eccetera alla etnografia mentre l’analisi e la classificazione dei documenti nonché la comparazione con le altre culture all’etnologia, e all’antropologia attribuiremo il compito di esaminare, confrontare la vita sociale, culturale del popolo preso in esame. Abbiate un altro po’ pazienza, cari lettori. Tutti sapete quanto gli studiosi siano ultra pignoli! A forza di osservare manufatti qui e là nelle varie parti del mondo hanno rilevato che questi sono pressoché uguali in civiltà anche lontanissime. E cosa hanno affermato? Che ci sono fenomeni di convergenza tra i popoli. Personalmente direi, nella speranza di non essere tacciata di presunzione, che essendo uguali i bisogni dell’uomo a qualunque latitudine, uguali o pressoché uguali sono gli oggetti. Prendete i recipienti. Cosa l’uomo ha più facilmente a disposizione? La creta. È più facile bere in un bicchiere quadrato o rotondo? Rotondo direte. La terra si scava con un oggetto piatto o appuntito? E così via. Se avete preso gusto a quanto vi ho detto, potete fare un giretto presso qualche museo etnografico, diciamo, del Friuli, dell’Emilia Romagna, Austria eccetera e poi in quello di questo estremo lembo dell’Italia, la Sicilia, e vi accorgerete che gli oggetti, al di là di piccole differenze, sono sempre uguali, perché, come vi dicevo, uguali sono i bisogni dell’uomo. A questo punto un cenno meritano gli studi italiani di tradizioni popolari. Non disperate, sono solo poche righe…! Il buon Napoleone, con la sua fissa di mettere le mani… su tutto e di portare con le… armi (l’esempio è rimasto indelebile nelle coscienze… Afghanistan docet) liberté, egalité, fraternité, e visto che considerava l’Italia un tantinello arretrata e piena di pregiudizi e quindi da “civilizzare” (magari razziando a piene mani opere d’arte di ogni specie e fattura, visto appunto che eravamo così poco evoluti!), ordinò un’inchiesta a partire dal 1809 sui dialetti e i costumi delle popolazioni locali. Volete sapere cosa dissero gli specialisti? Non avete che da andare al Castello Sforzesco a Milano e consultare i documenti. Tralascio, per evitare che chiudiate la rivista e mi mandiate là dove nessuno vuole andare, altri nomi e altri studi, ma vorrei citare per spirito campanilistico il nome di Giuseppe Pitrè, del dott. Giuseppe Pitrè. Sì proprio dott. in quanto medico e non dr. in quanto laureato, una volta si era più attenti ai titoli! Questi, in giro tra i suoi malati, venne a contatto dalla seconda metà dell’800 e fino alla morte, 1916, con la civiltà contadina o per meglio dire agricola della zona. Sorridete, lettori, perché i due vocaboli vi sembrano simili? Non lo sono per la verità, perché la prima è una società essenzialmente povera, la seconda più ricca in quanto permise in Sicilia la realizzazione di tantissimi capolavori architettonici. Sorvoliamo sulle sottigliezze e torniamo al nostro Pitrè che diede sistematicità alle ricerche sulle tradizioni popolari pubblicando una mole immensa di notizie su “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane” insieme a una rivista che vide la luce nel 1882 dal titolo: “Rivista archivio per lo studio delle tradizioni popolari” che, ricordo benissimo, il “nostro” Pitrè di Palazzolo Acreide, Antonino Uccello, citava spessissimo durante i nostri incontri in Corso Vittorio Emanuele. Allora ancora il Palazzo Ferla non era stato acquistato da Ninì. Certo dopo il Pitrè moltissimi altri studi sono stati fatti, che non cito per ovvi motivi. Invece dopo aver letto queste nozioni che avranno incuriosito qualcuno, vi esorterei a visitare, visto che siete soggetti sempre in… movimento, i musei di tradizioni popolari della vostra zona, a osservare i vari manufatti e poi, passando per le nostre parti, paragonarli a quelli siciliani. Ne troverete di somiglianze! Infatti, sicuramente i “diversamente giovani”, chissà quanti ricordi esumeranno legati ai tanti oggetti che hanno caratterizzato la loro infanzia. Secondo me è molto bello essere legati alle proprie radici. Ho detto legati non abbarbicati, che è concettualmente diverso. Conoscere le proprie radici significa conoscere sé stessi, la propria storia, avere un’identità da confrontare con quella degli altri, perché è dal confronto che scaturisce il progresso spirituale, psicologico e, toh, pure materiale dell’uomo. Ben a ragione a proposito di Antonino Uccello il noto antropologo Pietro Clemente, suo carissimo amico, in “Le rotte di Icaro” dice: “La saggezza dell’età salva il tempo, lo rende attuale, adotta il passato per farlo diventare futuro.” Ecco perché i vari Antonino Uccello sono grandi personaggi, perché se da una parte ci fanno apprezzare ciò che oggi allevia la fatica dell’uomo e automaticamente ci fanno paragonare il presente al passato, dall’altra, non facendoci dimenticare la nostra identità, ci indirizzano verso il futuro. Infatti, oggi più che mai in epoca di globalizzazione, di sfrenata omologazione ove il grande fratello di orwelliana memoria impazza in tutto il mondo, ci sarebbe davvero bisogno di uomini siffatti. Prima di descrivere la Casamuseo, vorrei soddisfare qualche altra curiosità intorno alla biografia del protagonista di questo articolo cui ho accennato già nel numero precedente di questa rivista. Tutti lo chiamavamo Professore perché tale era per la sua profonda cultura anche se insegnò sempre nelle scuole elementari. Allora come oggi, per lavorare di cervello si doveva emigrare. Dal 1947 al 1960, infatti, risiedette in Brianza venendo a contatto con etnologi, antropologi, artisti e studiosi di fama. Tra le sue amicizie quella con Guttuso, Consolo, Buttitta, Vittorio De Seta, Ernesto Treccani, Luigi Russo, Vanni Scheiwiller, Salvatore Fiume e non finirei con l’elenco. Molti erano uomini di sinistra come lui e come lui credevano nel potere della cultura. Poi Ninì, come lo chiamavano gli amici, era tornato in Sicilia a Palazzolo Acreide, il paese natale della moglie Anna Caligiore, tutt’ora vivente e Ispettore onorario della struttura e sempre al suo fianco in questa straordinaria avventura umana e culturale. Certo, per amore di verità, va detto che gli anni Cinquanta del secolo scorso furono importanti perché posero le basi metodologiche dell’Etnoantropologia con l’istituzione anche di cattedre universitarie. Gli studi e le ricerche sul campo fervevano e tra i protagonisti ci fu certo il nostro Antonino. Anni dopo anch’io mi entusiasmai alla materia, ricordo che inviai alla mia insegnante universitaria di Tradizioni Popolari una raccolta di filastrocche che mia nonna mi recitava e che io pazientemente trascrivevo in dialetto. Intanto, la tecnologia si evolveva rapidamente, faceva la sua comparsa il registratore, ne possiedo ancora uno. Grossi aggeggi con enormi bobine, ma anche le macchine fotografiche trovavano larga diffusione così come le prime cineprese. Per la raccolta di materiale etnografico canoro si creò in Roma il Centro Nazionale Studi di Musica Popolare, a cui Ninì diede un apporto molto significativo, tanto che il suo direttore Giorgio Nataletti ebbe a scrivere che quello di Antonino Uccello era stato “Un lavoro esemplare che fa onore all’uomo, al cittadino, allo studioso, fatto con una grande passione e con dedizione, con competenza e con assoluto disinteresse”. Aveva anche questo pregio il nostro protagonista, lavorava per amore della sua terra e della sua materia, per dovere civile, scientifico e intellettuale. Vi starete chiedendo dove sono oggi le registrazioni de “I canti del Val di Noto” che furono raccolti con tanta dedizione? Sono negli archivi RAI e in quelli dell’Accademia di Santa Cecilia in Roma. Personalmente ne ho viste copie al museo stesso. Una raccolta importante fu “Carcere e mafia nei canti popolari siciliani” che scatenò polemiche su alcuni quotidiani ma che vide nientemeno che Sciascia sostenere il Nostro con l’affermare: La mafia non canta; ma il sentimento mafioso, purtroppo, canta anche in molti Siciliani che mafiosi non sono. Incuriositi lettori, potrei citare infiniti episodi che riguardano questo singolarissimo e generoso personaggio che ci lasciò presto per un male incurabile nel 1979. Chi ne volesse sapere di più può consultare “Le rotte di Icaro” a cura del nipote Paolo Morale Uccello, una raccolta di documenti, poesie, immagini, testimonianze sulla vita di cotale nonno ma anche un richiamo a un testo ormai introvabile di Salvatore Silvano Nigro che glielo aveva dedicato e che aveva come titolo “La casa di Icaro”. Ebbi la fortuna di incontrare il prof. ancora una volta prima che volasse per luoghi più ameni. Condussi i miei alunni a vedere la Casamuseo. Ci raccontò che l’avrebbe voluta donare alla Regione Sicilia, ma questa faceva orecchio da mercante. Addirittura ricordo che mi disse che erano interessati all’acquisto dei tedeschi e che offrivano una cifra enorme per i tempi, circa un miliardo delle vecchie lire. Aggiunse che mai avrebbe privato Palazzolo Acreide delle sue tradizioni. Se non sono questi gli Uomini, ditemi voi, lettori, chi sono gli uomini? Finalmente la Regione decise di acquisire il museo, ma era già il1983, quando Ninì ci aveva lasciato da quattro anni. L’Assessorato ai Beni Culturali della Regione Sicilia ebbe la sensibilità però di lasciare tutto com’era stato sistemato da lui e che, dopo oltre trent’anni, ho rivisto tale e quale lo ricordavo. Mancava solo lui… che aveva fatto di questo luogo anche un centro per intellettuali ove tutti erano pari e non c’era alcun maestro. I giovani accorrevano, discutevano, “crescevano”, Ninì non faceva mai pesare loro la sua scienza. Basta interrogare il mio amico Giovanni Leone di cui dissi poco sopra o tutti gli altri giovani di allora, oggi anche loro diversamente giovani. Infiniti sono gli aneddoti sul nostro protagonista, alcuni dei quali citati nel volume indicato poco sopra. È tempo, adesso, d’iniziare la visita della Casamuseo. Come promemoria tenete a mente le parole del suo ideatore: “Abbiamo voluto aprire al pubblico un anti-museo: cioè una casa della civiltà contadina con ingresso libero a tutti, e usufruita come un servizio sociale. Una casa sempre mobile per il continuo fluirvi di collezioni, mostre, manifestazioni legati al territorio e a particolari momenti della vita civile e sociale…”, e qui dovrei aprire una lunghissima parentesi sull’improduttività dei Musei, delle biblioteche e via discorrendo come se la produzione fosse solo crescita in moneta sonante e non, e soprattutto, crescita umana per formare cittadini migliori, e oggi di cittadini migliori ce ne sarebbe veramente bisogno. Ma glissiamo… sulla pochezza umana. Una targa piuttosto sbiadita, di un marroncinosofferente, per la verità, in un angolo di via Carlo Alberto dice: “Casamuseo Antonino Uccello”. Raccogliamoci qui, cari visitatori, e iniziamo la breve salita che ci introduce alla reception. Ninì voleva che la visita fosse gratuita, in realtà lo è. Bastano 2 euro e ti accoglie una gentilissima impiegata. Ma, prima di entrare, sulle pareti dell’ingresso osservate, miei gentili ospiti, la teoria di piatti di ceramica colorata di Caltagirone, che mia nonna chiamava fiancotti. Giro lo sguardo… vi chiedo venia, ma lasciatemi un attimo in contemplazione del calesse a due ruote. Uno simile lo vidi a casa mia in un garage e col quale insieme a mio papà ebbi, bambina di tre anni, un incidente gravissimo sulla strada nazionale che conduceva a Noto. Non passò un anno che lo spazio occupato dal calessino fu preso da una Fiat. Un attimo, signori visitatori, vi presento il direttore della casa museo, l’Arch. Calogero Rizzuto, che ci condurrà al primo piano ove sono gli uffici e le stanze adibite a mostre, l’ultima fortemente voluta da lui su Guttuso, amico del nostro Ninì, che ha chiuso i battenti il 31 agosto del 2015. Non so a voi ospiti, ma a me in questo momento si sono annullati spazi e tempi nel ricordo degli oggetti qui esposti che vedevo, bambinetta, nelle case dei palazzolesi ma anche chi non è del luogo ricorderà le stesse cose, data la convergenza, di cui parlammo poco sopra, dei bisogni dell’uomo. Con infinita commozione torno a guardare improbabili Madonne, Sacre Famiglie, immagini di santi in pittura su vetro, approssimative nelle forme, davanti ai quali generazioni di uomini e di donne si erano inginocchiate a impetrare una grazia per una guarigione di un famigliare o perché il neonato vitellino non morisse o per il figlio partito in guerra affinché tornasse sano e salvo o perché… E poi foto, foto di persone ormai defunte le cui cornici erano attaccate al muro, mentre per i vivi effigiati si dovevano staccare, con evidente significato simbolico, ma lì ovviamente erano tutti attaccati al muro, data la distanza temporale. Oh, ecco in una bacheca tanti giocattoli! Più di uno era simile ai miei, in particolare un bambolotto alto non più di 15 centimetri in celluloide, materiale che non si usa più perché molto infiammabile. E ancora, osservate le povere statuine del presepe di gesso colorato, e poi le coperte (frazzate in dialetto), gli abiti da sposa e così via. Questa qui, però, è solo una piccola parte del museo, le vere sorprese sono al pianterreno. Gambe in spalla e scendiamo, esimi visitatori. Immettiamoci in un cortile ove fa bella mostra di sé la cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, sterna in siciliano, quindi entriamo nell’abitazione del massaro (agricoltore benestante), visitiamo per prima la casa ri massarìa cioè la stanza da lavoro che conteneva il formo per cuocere il pane e il focolare di pietra per la cottura dei cibi, non manca il recipiente (quarara) per ottenere il formaggio e la ricotta. Accanto osservate la madia (maidda) un contenitore rettangolare con bordi piuttosto alti, molto simile a quella delle altre parti d’Italia, che serviva per poggiare e fare scolare le forme che contenevano i formaggi o la ricotta, oppure per impastare il pane che poi veniva lavorato su una superficie piatta, la sbria, con un grosso bastone (sbriuni) infilato in due occhielli e affusolato in punta per scaniare (lavorare) il pastone agevolmente. Orsù, cari visitatori, vi siete distratti e sorridete. Non meravigliatevi se sul muro accanto alla palma intrecciata e benedetta la Domenica delle Palme vedete il ferro di cavallo col suo bel fiocco rosso, qui, come penso in altre parti, il sacro e il profano s’intrecciavano indissolubilmente. E cos’è quell’enorme aggeggio con tanti fili? Lo avete capito da soli, era il telaio. Questo è davvero grande come si conveniva a un massaro benestante. Immaginate una bella fanciulla bruna con grandi occhi azzurri (anche i Normanni hanno sciamato da queste parti!) che preparava la sua coperta, il suo lenzuolo, insomma il suo corredo delle nozze pensando al giovane bruno che le faceva gli occhi dolci dalla finestra di fronte! Non dilunghiamoci però, tornerete un’altra volta da soli e con più agio a osservare oggetto per oggetto. Passiamo nella casa ristari, cioè nella camera da letto del massaro con un letto grandissimo su cui è sospesa, legata a due borchie con delle corde la naca a buolo, in pratica la culla che permetteva alla mamma di dondolare il bambino mediante una cordicella stando a letto. In un angolo un recipiente cilindrico altissimo che conteneva il grano vi fa sgranare gli occhi! Notate l’assonanza tra grano e sgranare? È vero, togliere la pula al chicco di grano è simile ad aprire gli occhi per la meraviglia. Gli arcani del linguaggio! Nella parete di fronte osservate le foto distribuite in ordine rigorosamente gerarchico. Piano, miei cari visitatori, non correte. So che vi incuriosisce moltissimo questa stanza. Era il locale adibito alla produzione dell’olio d’oliva. Spiegare il funzionamento è molto complicato per la presenza di diversi personaggi ognuno dei quali aveva un compito specifico. In pratica c’erano due grosse macine, una più grande inferiore su cui ce n’era una più piccola, la quale mediante un asino girava sulla prima schiacciando le olive messe lassù dal maestro di pala, la poltiglia ottenuta veniva raccolta dal maestro del torchio che la metteva in recipienti di fibra vegetale che a loro volta venivano pressati, per fare uscire l’olio, sotto un torchio in legno, che era azionato manualmente. Il liquido veniva convogliato poi in delle vasche per separare l’olio che galleggiava dall’acqua. Ma neanche quest’ultima, essendo oleosa, si buttava. Era usata per alimentare le lucerne e per fare il sapone. Attenti al pavimento, carissimi, è un po’ sconnesso perché è quello originale, antico di secoli, bagnato di sudore, di fatica, di speranze e toh, anche di… nutrimento. Prima di uscire da questo ambiente osservate ancora un altro ingegnoso sistema per spremere il miele dai favi. Anche questi venivano messi in recipienti di fibra vegetale. Il primo miele che colava naturalmente era il migliore, mentre la seconda scelta era quello che veniva spremuto col torchio e ciò che rimaneva era la cera, i cui usi conoscete. Ma anche i ceroplasti ne usavano per i loro presepi o per i popolari bambinelli, madonne e santi sotto le famose campane di vetro che abbiamo visto al primo piano. Attenzione ai gradini, usciamo, passiamo nella stalla. Ovviamente non ci sono animali ma la mangiatoia fa bella mostra di sé. Non distraetevi, amici miei, perché non comprendete cosa sono tutti quegli attrezzi. Chi ha mai visto al giorno d’oggi una zappa, una falce, un vomere poi o un ditale di canna! Qui ce ne sono tanti. Erano gli attrezzi che ancora usano nel terzo mondo parte di quella gente che cerca fortuna nel nostro e che non ha mai visto un trattore, un erpice o anche la luce elettrica. Noto con piacere che alcuni di voi sono rimasti a bocca aperta dinanzi alla teoria di collari di legno per ovini o bovini. Lasciano stupefatta anche me che nell’infanzia ne ho visto tanti. Il contadino nelle lunghe serate invernali accanto al fuoco incideva il legno con forme straordinarie che richiamano ora gli arabeschi, ora i fregi classici. D’altra parte ogni popolazione che ha dominato questa terra martoriata ha lasciato qualcosa che a lungo andare si è trasformata in una cultura assolutamente originale e antica di tre millenni che così articolata non trova pari nel mondo. Siete stanchi e frastornati da notizie così antiche e così presenti, lo capisco benissimo. Un po’ di pazienza ancora e poi via al ristorante. Qui ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche. Ora stiamo per attraversare un piccolo locale che serviva da deposito dei recipienti (giare) per l’olio; usciamo quindi alla luce particolarmente limpida e tersa di Palazzolo e precisamente nel cortile secondario. Ogni famiglia benestante ne aveva uno, perché serviva per ricevere i contadini che portavano le derrate alimentari, le quali venivano conservate in un grande magazzino. Il nostro naturalmente non ha derrate alimentari ma accoglie mostre temporanee. Ultimo locale, una volta adibito a stalla, ospita una raccolta di pupi siciliani e una serie di cartelloni con cui i cantastorie, dato che la televisione era in mente dei e così pure la radio, intrattenevano il pubblico nelle piazze, nei cortili, negli slarghi con le storie dei paladini oppure con avvenimenti più o meno raccapriccianti avvenuti in varie parti che poi questo Omero post litteram, abbelliva con particolari magari inesistenti Quanto ho detto è solo un assaggino, come al ristorante! di quello che un visitatore può ammirare nella Casamuseo Antonino Uccello, il quale non volle creare un museo di ricordi e nostalgie ma un ambiente che contenesse le testimonianze di un mondo rurale ormai in estinzione, che pur sempre aveva plasmato le nostre radici, nella convinzione che in ogni uomo “agisce” insieme al presente anche il passato e gli permette di progettare il futuro. Ben a ragione Gauguin intitolò un suo famoso dipinto realizzato a Tahiti: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Lidia Pizzo