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News del 28/08/2014

L’ebbrezza di volare con le ali di Icaro nel cuore degli Iblei


La casa di Antonino Uccello («in nomine omen») a Palazzolo, luogo abitato dalle Muse e dallo spirito di Teocrito, dove Antonello da Messina lasciò il dono dell’Annunciazione


C’era una volta un uomo leggero e sottile come uno stelo, un arbusto, un uccello, e per l’appunto Antonino Uccello si chiamava, come a dire c’era un presagio, “in nomine omen”, nel nome il destino, che nel volto, nel profilo acuto un uccello poteva sembrare, di quelli all’apparenza fragili, ma che poi li vedi in volo e sono taglienti nell’aria come le saette, ma che soprattutto, ed è questa la cosa più straordinaria di tutte, sapeva volare per davvero. Volava il suo pensiero, volava la sua scrittura, volava la sua casa attorno a lui, di «Icaro» infatti l’aveva chiamata, pensando forse al paio d’ali di cera, segrete, che certamente usava quando nessuno lo poteva vedere. Casa-Museo, aveva allora chiamato quella casa, di memoria e di ricordo: casa dove la Sicilia contadina ritornava ad essere quella di Calpurnio Siculo e di Teocrito, dove sicuramente le Muse, liberate da ogni erudizione e retorica, intessevano con lui, non fauno, ma silvestre, alata creatura, armoniose, solari danze, al suono del flauto e della zampogna. Quella era una casa, ma essendo abitata anche dalle Muse, era un Mouseion, luogo di incantata religiosità, in cui si celebrava il susseguirsi delle stagioni, il tempo del corpo e dello spirito, le Opere e i Giorni. Là tutto aveva senso e significato, per cui la casa viveva un sua vita, parallela ai mesi, al sole torrido, alle assordanti cicale, e poi all’ombra, al fresco di pioggia o di fonte, alla sorsata di quartara e poi ancora al freddo, alla pioggia, al vento e anche alla neve, perchè anch’essa straordinariamente a quel tempo c’era! Quella casa, allora, pur non essendo degli Spiriti, comandava su quello che c’era da fare: oggi il forno, abbruciato a puntino, e domani, pane e olio, macinato di friscu, verde e denso, che è vero mangiare! E, a Pasqua e Natale, dolci, da saziarsi di odore, di profumo di zucchero e farina, di frutta, matura matura, o asprigna e selvatica, resa cristiana dal miele. Fra quelle mura si andavano depositando oggetti di antica, tradizionale sapienza, oggetti della casa e del lavoro contadino che, recuperati dal pifferaio magico, quell’Icaro, padrone di casa, si andavano ricollocando, quasi per virtù e forze proprie, nei posti giusti, e là sistemati, riprendevano l’antica vita. Così era successo a figurine in terracotta, lampade, vasi e lumie, presepi ed orci, oleografie di poveri santi e frazzate e cuttunine di rusticani corredi: con gli oggetti si era andata a recuperare l’antica vita che loro apparteneva, e che ripreso quel fiato vitale, respirava armoniosa con la casa tutta. Nella foto seppiata, sorrideva con occhi malinconiosi la sposa chiusa nell’abito virginale accanto al promesso tutto impettito: eppure quelle mani di pudica pazienza, avevano osato ricamare sul lenzuolo del corredo «Dolce Amore», con a fianco una nave, promessa e simbolo di felice futuro. Anche il canto si faceva sentire, ed era di malinconia del carrettiere sulla pietraia, di amore sotto una finestra, o di disperazione del carcerato. Insomma una casa d’armonia, in sintonia con gli uomini e l’ambiente, con gli umori del tempo e dei padroni di casa, e perché no, anche degli ombrosi santi locali. Santi guerrieri e permalosi, in conflitto di preminenza fra loro, e quindi oculati nella protezione da concedere e quindi rigorosi del rispetto da pretendere nella pratica della devozione. Ma nel grande respiro della casa c’era il posto giusto per tutto, nel tempo e nel modo naturale, come di un grande corpo di pietra vivente. E se viveva, doveva per forza dar di conto al cibo, al mangiare, come si diceva, e allora la casa tremava di gioia, tutta protesa a sentire gli odori, ad accoglierli negli intonaci grigi, a filtrarli nelle mura spesse, nel liberarli poi da finestre e balconi, a diffondersi lieti per stradelle e scalette a dare grazia ai nasi fortunati, che annusando contenti potevano dire: è tempo di stratto; oppure, «già si ficero i marmellati! », o ancora, «sugo di maiali! Finiu a Quaresima! ». L’Icaro di Palazzolo, tutto ascoltava compiaciuto, i commenti della strada, quelli dei paesani e quelli dei professoridottori, e anche le parole insieme agli oggetti e ai suoni si venivano componendo in un registro unico che era quello della Memoria. Una specie di sinfonia, canto corale in cui ognuno poteva riconoscere qualcosa, acchiappare un ricordo, e tanti facendolo pensavano che era una bella cosa, una fortuna che gli capitava, perché di tante cose non si ricordavano più, e poi ad un tratto ecco che piano piano, gli ritornavano alla mente facce amate e perdute, abitudini belle e scomparse, e la bellezza del ricordo per un attimo li folgorava. E tutto questo era proprio bello, una gran pensata di quell’uomo là, educato e sempre con la voce fina, fina, un po’ seccante forse con tutte le domande che faceva, e come?, e perché?, e quando?, ma con la testa di diamante, e capace di fare regali così, a tutti quanti pari! Erano contenti i paesani di quel maestro così speciale, veramente un buon maestro, dei siciliani di razza, e questo lo capivano tutti, anche se ancora non sapevano che ci potevano essere anche i cattivi maestri. In quel posto, lui, col suo volo d’uccello, migrando dal sud al nord, e poi ancora al sud, c’era capitato un po’ per caso, e non si può dire che l’avesse scoperto, ma amato a primo colpo, questo sì! Un paese dal nome di roccia, Akrai, paese di fortezze e di soldati, ma quanto bello e gentile! Non era stato certo un caso che Antonello da Messina avesse dipinto proprio per la Chiesa madre del paese la sua più bella Annunciazione, con la bionda Madonna dal volto gentile, stupefatta e compresa alle sconvolgenti parole dell’angelo, prescrittive! Nel paesaggio di dolce inverno la fanciulla dagli occhi di quieta serenità accoglie il destino, mentre intorno la vita è fissata nel suo quotidiano essere, i campi, il lavoro, gli arbusti, le acque. L’immensità dell’annuncio ferma gli attimi dello stupore: immobile il fiammeggiante angelo dall’aurea zazzera umbra, immobile lo sguardo mite della fanciulla: solo l’inarcarsi delle pagine candide del libro sul leggio tradisce l’incombente soffio del Divino. Questa committenza volle per la terra di Acrai, Palacioli, il «venerabilis dominus » Giuliano Maniuni, “figura”, antesignana del nostro Icaro, che nel contratto col divino Antonello pretese, non fulgori di ori e di azzurri, ma la «virginis Marie et angeli Gabrielis» … «cum casamento», la vera novità, questa, della pittura del ‘400. In basso una grasta di maiolica bianca e blu, con il suo tondeggiante cactus spinoso, riporta alla ceramica di uso comune, quella presente allora nelle case della gente, oggetto del nostro discorrere, e visibile oggi nei musei. Ma ritorniamo al nostro paese di grazia, quello il cui nome non è questa volta un omen, ma rappresenta quasi un ossimoro, una contraddizione in termini! Si veste infatti di aspra durezza, Acrai, nome di roccia pietrosa, avamposto bellico della greca Siracusa, muta il suo nome nel medioevo in Palacioli, cioè a dire, fortezza, castello, rocca, ed è sempre, ma proprio sempre, dalla fondazione greca, squillante di misura e grazia, ricco di fascino gentile. Come sfuggire alla grazia domestica del suo teatro, a perfetta misura della comunità, talmente percepito come un’estensione del personale vissuto dei cittadini, che non infrequentemente accade durante le rappresentazioni che il pubblico senta il dovere di intervenire, mettendo in guardia l’attore, che sulla scena appare ignaro di quanto si sta tramando a suo danno? Poco distante, dove il monte si scoscende nella valle aperta a promesse di feracità dai Lamias Mastòi, le mammelle di Lamia, ancora segni evidenti di antichi culti popolari nelle sculture che sembrano emergere dalla roccia del monte. Un mondo agreste e pastorale che salmodiando inni devozionali resi acuti dal suono di cimbali e tamburelli, al baluginare delle torce, celebrava i riti della Magna Mater. Lei, la dea all’origine delle cose, della vita di uomini e animali, la grande madre Terra, col suo corteggio di dei, uomini e fiere, misteriosa e accogliente, scaturita dalla roccia a promessa di futuro. Un’ereditá agricola e pastorale di cui sono intrisi i luoghi di questa bellissima terra e che l’ardimentoso Icaro volando in larghe, radenti falcate, fece in tempo a raccogliere e tramandare. CETTINA VOZA