I nuovi messinesi.
Migranti: li preferiamo enclave o integrati?

Migranti. E chi non lo è, da Abramo in poi?
Da alcuni decenni i nostri paesaggi urbani si sono arricchiti e differenziati. La presenza di numerose comunità di migranti, giunti nel nostro Paese per i motivi più disparati - quasi sempre riconducibili a drammatiche necessità di sopravvivenza a carestie, guerre, pulizie etniche, povertà - con la speranza di trovare qui, in paesi ritenuti civili e al riparo dalle diverse forme di barbarie che affliggono le loro patrie, un luogo in cui tornare a costruire, a progettare (e anche in cui tornare ad essere cittadini), ci ha posto, forse per la prima volta nella nostra storia, nella condizione di condividere la vita quotidiana con genti “altre da noi”. Genti in qualche misura intenzionate e disposte a ricominciare a vivere presso culture anch’esse segnate dalla diversità dei costumi, delle fedi, delle ritualità, degli stili di vita.

Senonché, come già Dante Alighieri aveva sperimentato, lo scendere e salir le altrui scale   sa sempre di sale, la ricerca di una nuova patria non è mai indolore, deve passare attraverso una lunga e faticosa macerazione nel crogiolo delle culture “ospitanti”, dovendo misurarsi, quasi sempre drammaticamente, con gli egoismi, i pre-giudizi, le varie e false forme di “identità” di cui si ammantano - a mo’ di luttuoso sudario - le comunità di ogni tempo e sotto ogni latitudine; un sudario che consegna alla morte definitiva, cristallizzandole in stereotipi e luoghi comuni, le forme di cultura “consolidate”, pregiudicando loro la possibilità di aprirsi all’esperienza dell’altro.

Ma, come lo studio dei fatti interculturali ci mostra, si entra nella Storia degli altri se si è capaci di entrare nelle loro storie  quotidiane. Si può partecipare concretamente di un genius loci  solo laddove se ne torni a declinare l’identità smarrita ovvero se ne declini una nuova.

Il problema dei migranti e del loro reale status  sociale è pertanto inquadrabile nei termini di una sostanziale alternativa. Essi possono essere da noi “autoctoni” percepiti quali presenze precarie,  ancorché utili a svolgere compiti particolari che la nostra cultura etichetta come non più congrui per i propri citoyens.  In quanto tali, essi rischiano di essere nient’altro che “ombre” che solo per accidente abitano le nostre medesime giornate storiche, in quanto con essi non è possibile pensare la costruzione di una storia e di un’identità comuni.

Essi possono viceversa essere considerati ciò che i vecchi siciliani definivano un’acciànza,  ovvero una chance,  un’opportunità, un’occasione non prevista né prevedibile ma – infine – benefica di arricchire attraverso declinazioni di esistenza differenti dalle nostre gli estenuati modelli culturali, le riposanti quanto pigre certezze che ci fanno da corazza nell’affrontare i problemi complessi e le sfide della modernità.

Qual è dunque la città che sogniamo? Una città apartheid,  in cui uomini e donne di razze e culture diverse si passano fianco a fianco senza mai interagire (se non attraverso il denaro), o una città aperta al confronto, allo scambio, alla contaminazione benefica dei gusti e dei cuori?

Il Cortile dei Gentili di settembre cercherà di offrire spunti di riflessione su tali tematiche, molto più vicine e stringenti di quanto noi possiamo esserne consapevoli. Dalla scelta che, più o meno lucidamente, noi faremo in direzione dell’uno o dell’altro corno del dilemma deriverà la possibilità di disegnare il mondo futuro che ci sta dinanzi. Un mondo futuro che, come ci canta quel grande poeta di Francesco De Gregori, “intanto passa e non perdona”. 

I due relatori-introduttori dell’incontro saranno P. Tanino Tripodo, sacerdote, Direttore della Caritas Diocesana,  e la Dr.ssa Tania Poguisch, docente e mediatrice culturale, Presidente dell'Associazione "Migralab A. Sayad". 

Sergio Todesco

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