Caravaggio. Due capolavori a confronto
Ancora Caravaggio dunque, l’ultimo Caravaggio. A distanza di quasi vent’anni dalla mostra “Caravaggio in Sicilia: il suo tempo, il suo influsso” (1984), allestita per il rientro a Siracusa, dopo un lungo e difficile restauro effettuato presso l’Istituto Centrale del Restauro, del Seppellimento di Santa Lucia, e dal convegno che ne seguì, promosso dal Centro Internazionale di Studi sul Barocco in Sicilia, viene offerta ora agli studiosi e al più vasto pubblico, ma soprattutto ai siracusani, un’altra occasione di incontro con il pittore lombardo.
Ma è possibile costruire una mostra intorno a due soli quadri? Per molti, moltissimi artisti non avrebbe alcun senso, ma con Caravaggio una simile impresa può essere tentata con successo. Così, sulla scia di iniziative analoghe, centrate su poche opere supreme - l’ultima, la più recente, dal titolo “Il Bacco di Caravaggio: da Firenze e Roma a Capodimonte”, allestita a Napoli, ha visto riunite due opere giovanili celeberrime, il Bacchino malato della Galleria Borghese e il Bacco degli Uffizi -, sono messi a confronto due capolavori eseguiti dal Caravaggio nel suo breve ma intenso soggiorno siciliano, il Seppellimento di Santa Lucia appunto, da tempo e non senza aspre polemiche in deposito al Bellomo (ma, se le ultime notizie in proposito sono attendibili, dovrebbe appartenere al Fondo Edifici per il Culto, ed essere quindi di proprietà dello Stato…), e l’Adorazione dei pastori, eseguito per i Cappuccini di Messina ed ora al Museo (per l’altra sua straordinaria pala d’altare messinese, la Resurrezione di Lazzaro, al momento inamovibile, è già da tempo programmata una revisione del restauro), posti l’uno di fronte all’altro, nel salone grande di Palazzo Bellomo.
Due episodi altissimi del periodo estremo del percorso artistico caravaggesco, ispirati a una solennità tragica e dolente: se nel Seppellimento sono rappresentati al massimo grado di concentrazione psicologica e di intensità espressiva la sacralità, la violenza e lo strazio della morte ed insieme la rassegnazione e l’umana pietà, nell’Adorazione dei pastori, per dirla con Longhi (1952), Caravaggio “ritentò, più umanamente, il nuovo rapporto diramante tra spazio e figure”, e “la Madonna col minuto bambino, sotto lo sguardo apprensivo dei pastori quasi colati in bronzo, appare spersa su quel poco di strame pungente (…), mentre, scivolata in primo termine verso di noi, una specie di “natura morta dei poveri” - tovagliolo, pagnotta e pialla da falegname, in tre toni di bianco, bruno e nero - si restringe a un’essenza disperata”.
Se è vero, come è stato scritto (C. Bon Valsassina, 2002), che “negli ultimi tempi la semplice evocazione del nome di Caravaggio, proposto ormai nei contesti più diversi, sembra avere acquistato la potenza di un mantra, capace di conquistare senza sforzo l’interesse del pubblico e della critica”, è pur vero che dipinti come questi continuano a promanare una sorta di energia misteriosa e a suscitare, anche e soprattutto nei non specialisti, un’emozione grande.
Emozione che, ne siamo certi, si rinnoverà nella grande mostra in preparazione “Caravaggio: gli ultimi anni (1606-1610)”, a cura di Nicola Spinosa, Dawson Carr e Keith Christiansen, che si terrà prima a Capodimonte (ottobre 2004-gennaio 2005) e successivamente alla National Gallery e al Metropolitan Museum of Art, nella quale saranno presenti (almeno, ce lo auguriamo) anche le opere “siciliane” del maestro.
Nelle pagine che seguono, precedute dai contributi di Donatella Spagnolo e di Pino Di Silvestro, sono riproposte le schede filologiche dei due dipinti in questione, redatte rispettivamente da chi scrive e da Marco Pupillo e già pubblicate in altra sede, mentre un ampio corredo di immagini a colori eseguite appositamente da Lamberto Rubino, una sorta di atlante fotografico, permette di cogliere dettagli e particolari minimi che molto spesso sfuggono a una lettura superficiale, suggerendo, come indica il titolo della mostra, tutti i possibili confronti fra i due sommi capolavori.

Gioacchino Barbera
Direttore del Museo Regionale di Messina

 

Mi sono sempre chiesta, e ora ancora di più, dopo la verifica quotidiana e continua che il Museo offre, quale sia il motivo reale di questa attrazione gravitazionale fortissima che costringe il visitatore a rimanere sbalordito, stupefatto, annichilito, di fronte al quadro del Caravaggio. E, in parallelo, cosa spinga ancora, quasi una forza inesauribile, ad approfondire ancora la sua storia, la sua biografia, la sua tecnica, dopo che molto, forse quasi tutto è già stato scritto, studiato, esplorato. E’ una piccola sfida, per me, capire il vero, recondito motivo di questa forza magnetica che attrae gli occhi e la mente, di quest’arte che colpisce come una stilettata allo stomaco indistintamente tutti, facendosi beffe delle presunte differenze culturali e risucchiando in un unico vortice le più diverse intelligenze e sensibilità. Alcuni sostengono che il topos del pittore maledetto, del genio guidato dalla lucida follia sia il principale responsabile di questo successo crescente; altri che comunque sia il soggetto principale dei suoi quadri, soprattutto di quelli dell’età matura e degli ultimi, incontestabilmente rappresentato dalla violenza nelle sue forme più crude e pure, ad esercitare una forma quasi perversa di attrazione che viaggia su onde difficilmente controllabili.
Potremmo azzardare che in un’epoca che ha bisogno sempre più di emozioni forti, in cui i film sperimentano forme sempre più aberrate di violenza per colpire uno spettatore talmente abituato ad essa dallo “spettacolo” quotidiano dei media, che riesce a farla percepire comunque come una cosa “fittizia”, un’arte che abbia questo come soggetto principale indubbiamente cammina sulla scia del successo.
Si è creduto davvero - ha scritto Maurizio Calvesi - che fosse non solo un ribelle e un violento, come in certa misura è indubbiamente stato, ma anche un contestatore delle dottrine religiose, un indifferente ai loro valori, un laico nel senso moderno della parola, e inoltre uno stravagante ai limiti della pazzia, e, secondo alcuni, un epicureo. Nonché in tutto questo non s’è più visto un motivo di condanna, ma anzi d’esaltazione, se la religione del Caravaggio era soltanto l’arte, se il suo culto era quello della “nuda realtà”: che egli avrebbe amato riprodurre spogliando la pittura da ogni altro significato, percorrendo così il naturalismo o il realismo di un Courbet ponendosi come fondatore di una modernità intesa come trionfo della libertà individuale come culto dell’arte pura e anche come “ maledettismo”. Se così fosse, non si capisce perché il gusto del pubblico non premi con la stessa intensità artisti che hanno fatto della violenza, e della trasgressione il loro “cult” principale, a cominciare dai poeti maledetti e fino al filone dell’arte contemporanea davvero ricco in tal senso.
Se invece cerchiamo di fare per un attimo il gioco del tempo, ed immaginare quindi l’ambiente in cui l’artista si muoveva e da cui traeva i suoi spunti e le sue ispirazioni, non possiamo non rimanere profondamente turbati dalle condizioni oggettive di una vita nella quale la violenza feroce e quotidiana sia degli uomini che della natura, era assolutamente bandita dall’arte, che doveva sottostare a delle regole ben precise e doveva muoversi comunque all’interno di un’iconografia i cui confini erano rigidamente fissati e non permettevano assolutamente trasgressioni o divagazioni. L’inquisizione, i loschi giochi del potere politico e le miserie umane, l’umanità povera, sofferente e quindi reietta, la crudeltà molto spesso gratuita consumata prevalentemente e preferibilmente sui più deboli, l’ostinazione quasi maligna di una natura che attraverso i suoi flagelli, come la peste o le malattie, continuava a colpire inesorabilmente gli innocenti, erano in realtà componenti di una realtà quotidiana molto lontana da quella che oggi immaginiamo guardando i prodotti dell’arte che la storia ci ha tramandato, operando un processo di distillazione che ne ha edulcorato le parti più indigeste e ne ha attutito gli stridori più raccapriccianti.
Caravaggio ha osato sfidare tutto questo. Sì, è vero, gli ultimi anni della sua vita dovettero essere indiscutibilmente tragici, sconvolti dall’ossessione di “essere preso”. La partecipazione emotiva, il dramma personale sono intensamente memorabili in quelle scene di decollazione che, quasi con ossessione il Caravaggio dipinge e che forse sono una - non si sa fino a che punto conscia- proiezione delle sua angosce per la morte imminente. Ma è anche vero che dalle sue tele si erge forte il grido di chi non ci sta, di chi da “pazzo e scimunito”, due epiteti che vengono sempre affibbiati a chi osa rompere gli ordini precostituiti, osa rappresentare la realtà vera, quella che egli sente nell’emozione personalissima che gli avvenimenti, presenti o immaginati e comunque inviati dalla storia, ma filtrati dal presente, producono nelle pennellate che, quasi da invasato di se stesso, della sua visione della realtà e della vita, danno vita alle sue opere. E, credo, questa forza dirompente impressa nel quadro, comunica in modo diretto e inequivocabile, al di là della forza del “sapere” esattamente cosa è successo, muto nell’inafferrabile eloquenza delle figure, dei gesti, delle espressioni, della composizione artistica, instaurando un dialogo che folgora con i suoi lampi di luce l’anima dello spettatore-visitaore che rimane stregato, affascinato, abbagliato da un’opera in cui l’arte si mescola con l’uomo e stranamente riesce a far intravedere la luce quasi divina che l’essere autenticamente uomo emana.

Vera Greco
Direttore della Galleria Regionale di Palazzo Bellomo