Des Grecs en Sicile.
Grecs et indigènes en Sicile occidentale d'après les fouilles archéologiques

Marsiglia, Musée
d'Archeologie Méditerranéenne
12 maggio - 20 agosto 2006

 

Il 12 maggio, alla presenza di S.E. l'Ambasciatore italiano in Francia, il vicepresidente del Senato francese Monsier Jean-Claude Gaudin e l'Assessore ai Beni Culturali e Ambientali della Regione Sicilia On.le Prof. Alessandro Pagano inaugureranno, a Marsiglia, la mostra "Des Grecs en Sicile. Grecs et indigènes en Sicile occidentale d'après les fouilles archéologiques", presentata al pubblico per la prima volta a Palermo nel 2002 e, tra il 2004 ed il 2005, a Zurigo, nella sede museale dell'Università svizzera.
L'esposizione, organizzata dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo con il coordinamento di Adele Mormino, proseguirà fino al 20 agosto 2006: sarà allestita nella prestigiosa sede del Centre de la Vietile Charité, un monumentale edificio settecentesco che ospita il Musée d'Archeologie Méditerranéenne.

Il percorso espositivo affronta uno dei temi più affascinanti e problematici della storia antica della Sicilia , soffermandosi su quel particolare periodo storico compreso tra l'età arcaica (VII secolo a C.) e la conquista romana dell'isola che vide, soprattutto nella Sicilia occidentale, uno straordinario incontro di popoli.
Circa trecento reperti, provenienti da numerosi insediamenti indigeni e greci, testimonieranno in maniera significativa l'incontro tra i colonizzatori greci, stanziatisi sulla costa settentrionale dell'isola, e le popolazioni indigene dell'entroterra, dimostrando la vitalità e l'originalità di quelle culture.
Tra i pezzi più significativi si annoverano certamente la phiale aurea di Caltavuturo, un pregevole oggetto di oreficeria ellenistica, e le due tavolette di Entella, insostituibili fonti documentarie per la ricostruzione storica di un periodo particolarmente complesso, recuperate in anni recenti dal mercato antiquario clandestino.
Il coordinamento scientifico dell'esposizione è a cura di Francesca Spatafora e Stefano Vassallo, della Soprintendenza di Palermo, sostenuti dall'autorevole collaborazione della Scuola Normale Superiore di Pisa, dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Zurigo e, in occasione dell'edizione francese, del Centre Camille Jullian dell'Université de Provence.
All'inaugurazione della mostra seguirà, il 15 maggio, in collaborazione con il Consolato d'Italia a Marsiglia, la presentazione dell'evento presso l'Istituto di Cultura Italiana, dove sarà esposto l'apparato didattico della mostra in lingua italiana ed illustrato, con una conferenza di Francesca Spatafora, il percorso scientifico dell'esposizione.


    Greci in Sicilia
Greci e indigeni in Sicilia occidentale attraverso la documentazione archeologica

I secoli compresi tra l’età arcaica e la conquista romana rappresentarono, in particolar modo per la Sicilia occidentale, un periodo caratterizzato da profonde trasformazioni scaturite dal contatto e dall’incontro tra la società “indigena” tradizionale, fondata principalmente su un’economia di tipo agro-pastorale e caratterizzata da una tipologia insediamentale che privilegiava l’occupazione di siti d’altura posti lungo gli assi fluviali, ed il mondo greco coloniale, portatore di una struttura sociale e di modelli urbanistici e architettonici assai più complessi ed articolati.
Anche la vicinanza con gli emporia fenicio-punici della costa nord-occidentale, che proprio nell’entroterra avevano lo sbocco ai loro intensi traffici commerciali, ebbe conseguenze non indifferenti sui processi di integrazione ed acculturazione.
Le numerose forme di interrelazioni diedero esiti diversi a seconda delle modalità del contatto: in alcuni casi il modello allogeno venne pienamente recepito, in altri la componente indigena sicano-elima mantenne una sua specifica identità.
La mostra ripercorre dunque, attraverso una selezione significativa di reperti provenienti da alcuni tra i più interessanti insediamenti di cultura elimo-sicana (Entella, Iaitas, Monte Maranfusa, La Montagnola di Marineo, Colle Madore, Montagna dei Cavalli, Cozzo Spolentino, Monte Riparato di Caltavuturo) e dalla colonia calcidese di Himera, questa lunga storia di contatti in una parte dell’isola che, “terra di frontiera” fin dall’età arcaica, si caratterizzò proprio per la sua variegata multietnicità e per la vitalità e dinamicità dei rapporti.
Francesca Spatafora

    DA UN'ANTICA CITTA' DI SICILIA
I decreti di Entella e Nakone

La mostra documentaria sui decreti di Entella, curata dal Laboratorio di Storia, Archeologia e Topografia del Mondo Antico della Scuola Normale Superiore di Pisa, rappresenta, non solo per gli studiosi di antichità siciliane, una tappa importante per l’approfondimento critico di un periodo storico complesso e denso di vicende - i secoli IV e III a.C. - che segnò l’intero territorio dell’isola.
L’esposizione a Marsiglia, terza tappa della mostra dopo Palermo e Zurigo, è un’occasione preziosa per presentare ad un più vasto pubblico le famose iscrizioni su tavolette bronzee con i decreti delle città di Entella e Nakone, illecitamente trafugate dalla Rocca di Entella e immesse sul mercato antiquario negli anni ’70. Fin dal 1977 furono rese note alcune trascrizioni, pubblicate nel 1980 da Giuseppe Nenci, lo studioso che la mostra si propone di ricordare e che si adoperò in ogni modo, coadiuvando l’opera investigativa del Nucleo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico, per il recupero dei decreti andati dispersi. Due tavolette, una autentica ed una falsa, vennero restituite nel 1996 dal Fogg Art Museum dell’Università di Harvard (USA) ed una terza fu consegnata nel 1998 da ignoti presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
Ad una completa ed attenta lettura storica dei testi, accompagnata da nuove e probanti riconsiderazioni anche in relazione alla cronologia dei documenti, si aggiungono l’ampia illustrazione del contesto storico e territoriale richiamato dalle iscrizioni, una sistematica disamina delle città nominate nei decreti, la puntuale descrizione dell’evidenza archeologica finora emersa grazie alle indagini effettuate sulla Rocca di Entella, e infine un’approfondita analisi di quanto emerge dai testi circa le istituzioni, i culti e gli edifici della città antica.
Carmine Ampolo

    ENTELLA
Sulla Rocca d’Entella, lungo il corso del Belice sinistro, sorgeva una delle città tradizionalmente attribuite agli Elimi (Servio), assieme ad Erice e Segesta. La città elima, presto ellenizzata, visse molte delle tormentate vicende che caratterizzarono la parte occidentale dell’isola: momento decisivo fu la conquista da parte di mercenari campani (404 a.C.), seguito nei secoli IV e III a.C. da alterni rapporti con i Cartaginesi. Passata ai Romani durante la prima guerra punica, fu ripopolata con il loro consenso. Nel Medioevo la città fu un importante centro di cultura islamica: roccaforte della resistenza musulmana in età sveva, venne definitivamente distrutta dalle truppe di Federico II.
Le ricerche ad Entella, a cura della Scuola Normale Superiore di Pisa, attestano una frequentazione del sito durante la media età del Bronzo; la fase di vera e propria urbanizzazione è testimoniata in modo consistente solo da età tardoarcaica, periodo cui si riferiscono un’area artigianale nell’area della necropoli A, l’impianto della fortificazione e parte del complesso pubblico del vallone orientale, di cui alcuni ambienti ebbero destinazione sacrale con culto a carattere conio; alla fine del IV sec. a.C. fu costruito, a sud, un granaio pubblico, distrutto da un incendio alla metà del III sec. a.C.
Il culto di Demetra e Kore, attestato almeno dal V al III sec. a.C., fu praticato anche nel santuario extra moenia poco distante dalla porta Nord-Ovest.
Ad età ellenistica risale infine la maggior parte delle tombe scoperte nella necropoli A, utilizzata fino alla metà del II sec. a.C.: i tipi di sepolture e le produzioni vascolari, insieme alle notizie dei decreti circa gli edifici e le istituzioni pubbliche della città, documentano per l’età ellenistica la completa ellenizzazione dell’antico insediamento elimo.

    HIMERA
La colonia greca

La fondazione di Himera nel 648 a.C., ad opera di coloni greci di stirpe calcidese e dorica, costituì per la popolazione indigeno-sicana del vasto territorio della Sicilia centro-settentrionale, compreso tra il massiccio delle Madonie e le vallate dei fiumi Imera Settentrionale, Torto e San Leonardo, un fatto pregno di grandi trasformazioni.
Il contatto con un mondo così diverso, e per molti aspetti innovativo in campo tecnico, artistico, linguistico e religioso, attivò nel tessuto sociale delle popolazioni locali un lento ma inesorabile processo di radicali cambiamenti. Le relazioni ebbero probabilmente avvio dal semplice scambio di prodotti e di merci, ma ben presto, attraverso legami sempre più stretti, che possiamo ipotizzare basati anche su matrimoni misti e trasferimenti di Greci in insediamenti indigeni o viceversa, l’identità delle culture locali si andò progressivamente “ellenizzando”, fino ad un profondo mutamento dei propri usi e costumi.
La colonia ebbe vita breve, soltanto 240 anni dalla fondazione sino alla sua distruzione nel 409 a.C. per opera di Cartagine; sporadici sono i riferimenti degli storici, legati, principalmente, al ricordo della grande battaglia di Himera, vinta dai Greci di Sicilia sui Punici nel 480 a.C.
La “storia” dei rapporti con gli indigeni, è, così, legata quasi esclusivamente alla ricerca archeologica, in particolare al rinvenimento di prodotti indigeni: i numerosi vasi a decorazione dipinta o impressa ed incisa scoperti nell’abitato arcaico, nel santuario di Athena e nella necropoli orientale sono, infatti, un significativo indizio di contatti non occasionali tra Greci e Indigeni; contatti divenuti abituali fin dai primi decenni di vita della colonia ma, soprattutto, nel VI sec. a.C., benché ancora ci sfuggano le relazioni politiche con cui Himera si pose nei confronti dei numerosi abitati indigeni identificati nelle vallate dell’ampio entroterra.

    MONTE MARANFUSA
Posto nella Media Valle del Belice, lungo il corso del ramo destro del fiume, il Monte Maranfusa, nei pressi di Roccamena, è una roccaforte isolata e facilmente difendibile.
Sulla parte più elevata del monte e sui più dolci pendii sottostanti, fin dall’età protostorica, si adagiò un insediamento che non sopravvisse tuttavia alle vicende del pieno V sec. a.C. ma che, dopo molti secoli di abbandono, conobbe un altro fiorente periodo di vita in età normanno-sveva.
Gli scavi, effettuati a cura della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo, hanno documentato un’occupazione del sito a partire almeno dal IX-VIII sec. a.C., anche se il momento di massima espansione è da connettere con l’età arcaica (VII-VI sec. a.C.), momento in cui le genti indigene già stanziate sul monte vennero pian piano in contatto con le popolazioni greche delle vicine colonie costiere, avviando quei sottili processi di interazione che tuttavia non portarono mai a fenomeni di autentica e profonda integrazione.
Della fase arcaica e tardoarcaica si è riportato alla luce un settore di abitato e si è indagata l’organizzazione degli spazi in relazione alla possibilità di un impianto rispondente a criteri prestabiliti. Sono state scavate alcune unità abitative i cui schemi planimetrici testimoniano dell’avvenuto contatto; anche lo spazio insediativo risponde ormai a dei pur semplici criteri di pianificazione che richiamano significativamente impianti urbani coevi.
Di estremo interesse si è rivelata anche l’analisi dell’arredo mobile contenuto nei diversi ambienti, consentendo di definire lo spazio abitativo e quindi la struttura sociale del gruppo: numerosi gli utensili e le suppellettili rinvenuti, soprattutto ceramiche di fabbriche locali a decorazione impressa, incisa e dipinta, spesso associate con produzioni importate o coloniali.

    IAITAS
Le rovine dell’antica Iaitas, riportate alla luce grazie agli scavi dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Zurigo, si estendono sulla parte più elevata del Monte Iato, posto in strategica posizione di controllo delle ampie vallate fluviali sottostanti.
Non esistono fonti scritte per le prime fasi di vita della città né per il periodo arcaico e classico, mentre ci sono note, attraverso gli storici antichi e i geografi e viaggiatori normanni, le vicende della sua lunga storia, durata ininterrottamente per oltre duemila anni e conclusasi con la definitiva istruzione della città ad opera dell’imperatore svevo Federico II.
Il primo insediamento risale al X-IX sec. a.C. ed è documentato attraverso pochi fondi di capanna e alcune tipiche produzioni ceramiche locali; ai primi contatti con il mondo greco coloniale, attestati a partire dalla fine del VII sec. a.C., seguì, nel corso del VI sec., un più intenso e ravvicinato rapporto che si concluse con una pacifica coabitazione di indigeni greci nell’ambito dello stesso insediamento, come documenta l’esistenza di un tempio dedicato ad Afrodite ed una casa con cortile di tipo greco databile ad età tardoarcaica.
Ciò significò l’inizio di un graduale ma profondo processo di integrazione culturale che trasformò la “forma” stessa della città, interamente ricostruita alla fine del IV sec. a.C. secondo i canoni dell’urbanistica e dell’architettura greca: del nuovo impianto fanno parte l’asse viario principale, edifici e spazi pubblici di rilievo, come il teatro e l’agorà, quartieri residenziali costituiti da case signorili con ambienti disposti intorno a cortili porticati.
La completa ellenizzazione del sito, avviata in maniera significativa già a partire dagli ultimi decenni del VI sec. a.C., pare dunque, a quell’epoca, definitivamente compiuta.

    LA MONTAGNOLA - MAKELLA
L’antico insediamento posto sulla Montagnola di Marineo, in posizione elevata rispetto all’alto corso del fiume Eleuterio, è stato di recente identificato - grazie al rinvenimento di alcune tegole iscritte nel corso dei recenti scavi a cura della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo - con la città di Makella, nota attraverso numerose fonti storiche ed epigrafiche.
La collocazione geografica del sito, in posizione chiave rispetto alla viabilità antica e agli assi naturali di collegamento, resero la città snodo di fondamentale importanza per il passaggio di genti e merci; soprattutto la facilità del collegamento con la costa settentrionale, agevolò fin dall’età arcaica le relazioni con il mondo punico, cui la città restò per secoli legata, senza tuttavia rimanere esclusa dai flussi culturali di cui erano vivaci vettori le colonie greche occidentali.
Mentre assai frammentarie sono le testimonianze relative al primo insediamento di VIII-VII sec. a.C., ad età tardoarcaica risale l’originario impianto del sistema delle fortificazioni, come attesta tra l’altro il rinvenimento, proprio nei pressi delle mura, di un eccezionale deposito votivo comprendente parti di armature di tipo greco associate con vasellame di produzione indigena e suppellettili di fabbrica coloniale.
Il muro di cinta venne sicuramente rinforzato nella prima età ellenistica. La distruzione della linea difensiva databile alla metà circa del III sec. a.C. appare oggi, alla luce dell’identificazione della città, chiaramente riconducibile ai fatti della prima guerra punica ed alla conquista romana della città di Makella.

    COLLE MADORE
Un significativo contributo allo studio dei rapporti tra Greci ed Indigeni è venuto dalle recenti campagne di scavo realizzate dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo a Colle Madore, situato nei pressi di Lercara Friddi, nell’alta valle del Fiume Torto.
E’ stato messo in luce un piccolo sacello (edificio sacro) costruito intorno al 550-525 a.C., al cui interno è stata rinvenuta un’edicola con figura di Eracle alla fontana, che consente di ipotizzare forme di culto tributate all’eroe greco. Tipologia dell’edificio, struttura e impiego di elementi decorativi del tetto, tipicamente imeresi, denotano stretti legami, e forse anche il controllo diretto del centro di origine sicana, da parte di Himera.
A ridosso del sacello si dispongono diversi vani, uno dei quali destinato, probabilmente, alla metallurgia; se tale dato verrà confermato si tratterebbe della prima testimonianza del genere, per l’età arcaica, in tutta la Sicilia. La lavorazione dei metalli a Colle Madore era comunque praticata ben prima dell’età coloniale greca; lo dimostra il rinvenimento di diverse matrici di fusione di oggetti di bronzo (armi ed attrezzi) dell’XI sec. a.C. Di grande interesse anche le lamine di bronzo decorate con volti antropomorfi stilizzati, databili tra fine VII e gli inizi del VI sec. a.C., proprio nei decenni in cui sono documentati i primi scambi di prodotti con i Greci. Ma è dopo la metà del VI sec. a.C. che le relazioni si intensificarono e forse un piccolo nucleo di coloni si aggiunse all’originario nucleo di popolazione locale.
Alla fine del VI-inizi V sec. a.C. è testimoniata una violenta distruzione, alla quale seguì una fase di forte riduzione dell’insediamento, fino agli ultimi decenni del V sec. a.C., quando, dopo una breve ripresa, il sito venne definitamene abbandonato, probabilmente in coincidenza con gli eventi del 409-405 a.C. che videro la distruzione di Himera, Selinunte e di altre colonie greche, allorché Cartagine estese militarmente il proprio controllo sull’isola.

    MONTE RIPARATO
Il Monte Riparato è situato lungo la vallata del fiume Imera Settentrionale, in posizione felice per il controllo dell’importante percorso naturale di penetrazione tra la costa tirrenica (nella zona di Termini Imprese/Himera) e l’area centrale dell’isola compresa tra le vallate dei Fiumi Salso-Imera e del Fiume Torto. Questa collocazione strategicamente rilevante e la ricchezza di risorse naturali costituirono elementi determinanti per la nascita e lo sviluppo di un centro abitato, popolato, nella fase arcaica, da genti indigeno-sicane, ma in vita almeno fino al I sec. a.C.
Le indagini archeologiche, condotte dall’Istituto di Archeologica dell’Università di Palermo, hanno consentito di esplorare circa 70 sepolture databili tra il III e il II sec. a.C., disposte su due o tre strati sovrapposti. Sono attestati sia il rito dell’incinerazione che l’inumazione, e varie sono le tipologie delle tombe, con presenza anche di epitymbia, veri e propri monumenti a gradini, con stucco all’esterno, che caratterizzavano e arricchivano il paesaggio della necropoli. I corredi funerari hanno restituito un ingente numero di oggetti, talvolta di notevole qualità, come nel caso delle terrecotte figurate, tra cui spicca una bella testa di toro che ha conservato la vivace policromia originale.
L’indagine nell’abitato, ancora in fase iniziale, ha permesso di individuare alcuni ambienti di un isolato e due tratti di strada pavimentata con basole; questi elementi sono risultati utilissimi per ipotizzare una sistemazione urbanistica, in età ellenistica, con terrazze regolari disposte lungo i fianchi del monte. Benché le esplorazioni siano ancora alla fase iniziale, è plausibile che in età ellenistica l’abitato abbia avuto un notevole sviluppo; il discreto tenore di vita degli abitanti è del resto testimoniato non solo dalla circolazione di pregevoli prodotti, ma anche dalla presenza di case dotate di peristilio, probabilmente anche a due piani, e decorate con stucchi parietali ed elementi architettonici decorativi.

    LA PHIALE AUREA
Il 29 febbraio 1999 è stata restituita all’Italia la preziosa phiale mesomphalos (patera ombelicata) trafugata anni fa dalla Sicilia, dove venne rinvenuta nel corso di scavi clandestini, probabilmente nel territorio circostante l’importante centro ellenistico di Monte Riparato, nei pressi di Caltavuturo.
La vicenda del recupero non è meno significativa e complessa del valore storico-archeologico della phiale; una lunga e articolata indagine condotta dalla Procura della Repubblica di Termini Imerese, con la collaborazione del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri, intervenendo nella fitta rete del commercio clandestino di opere d’arte internazionale, ha chiarito i diversi passaggi del reperto, dal suo rinvenimento, al transito in Svizzera, ed, infine, al suo acquirente, un ricco collezionista di New York.
La phiale, affidata in custodia giudiziale al Soprintendente di Palermo, viene esposta al pubblico inserita in un contesto storico-archeologico significativo in relazione alle problematiche dei rapporti tra Greci e Indigeni nella Sicilia Occidentale: questo splendido reperto, prodotto raffinatissimo dell’oreficeria ellenistica, è, infatti, emblematico della qualità e della ricchezza dei reperti “greci” circolanti nella Sicilia interna del IV e III sec. a.C.
La patera è d’oro massiccio (gr. 982) e, tranne il bordo e l’ombelico centrale (l’omphalos che ne caratterizza la forma), è riccamente decorata a sbalzo con fasce concentriche di ghiande collegate da eleganti motivi lineari e con una serie di raffinate figure di api. Nella fascia intorno all’omphalos, sono incisi tralci vegetali elegantemente intrecciati. Sul bordo esterno è incisa l’iscrizione in caratteri greci con il nome di Damarco, figlio di Achiri.

    MONTAGNA DEI CAVALLI - HIPPANA
Sulla Montagna dei Cavalli, situata nella parte più interna della Sicilia occidentale, nel cuore dei Monti Sicani, ebbe vita tra il VII e la metà del III sec. a.C. un grande insediamento urbano. Molto povera è ancora la documentazione relativa alla fase indigena del centro, che ebbe rapporti di scambio con i Greci già a partire dalla fine del VII sec. a.C.; nelle aree esplorate ogni traccia delle strutture di età arcaica è stata, infatti, cancellata dalla ristrutturazione generale dell’abitato, avviata a partire dalla metà del IV sec. a.C., quando la città, ricadente nell’ambito dell’eparchia punica, rinacque ed iniziò un periodo felice, che durò sino alla metà del III sec. a.C., probabilmente quando l’abitato, identificato con l’Hippana menzionata da Polibio e distrutta dai Romani nel 258 a.C. nel corso della prima guerra punica, cessò per sempre di vivere.
La ricchezza di questa fase di vita è attestata dal notevole impegno con cui fu organizzata la città, chiusa da una doppia cinta di muraria, una inferiore, a difesa di tutto il centro, ed un’altra intorno all’acropoli. Ma anche l’impianto dell’abitato, organizzato con un sistema di terrazze sostenute da potenti muri e la presenza di edifici pubblici, tra cui un teatro di medie dimensioni, sono un sintomo della prosperità del centro di Montagna ei Cavalli che, nella seconda metà del IV se. a.C., attivò una zecca che coniò monete d’argento e di bronzo.
Il rinvenimento di oreficerie (diademi d’argento dorato, con motivi figurati o decorazioni vegetali) nei corredi della necropoli occidentale e di un’interessantissima placchetta d’argento dorato in un edificio dell’acropoli, con un enigmatico volto trifronte, sono anch’essi il segno di un elevato livello di vita della popolazione di Montagna dei Cavalli e la testimonianza di un momento storico estremamente fortunato e vitale per l’intera Sicilia.

    COZZO SPOLENTINO
Sulla linea di spartiacque tra la Valle del Belice e quella del S. Leonardo, nel tratto compreso tra gli attuali abitati di Corleone e Prizzi, si eleva, a circa 1000 m slm, un monte scosceso e dalla cima appuntita caratterizzato, sul versante settentrionale, da un ripido pendio su cui si adagiò l’abitato: due brevi campagne di scavo, condotte dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Palermo, hanno interessato livelli e strutture relativi all’età ellenistica, mentre precedenti ricognizioni di superficie avevano indotto a ipotizzare l’esistenza dell’insediamento a partire dall’età arcaica.
In un’area immediatamente esterna alla zona dell’abitato, a testimonianza dell’assimilazione di culti di tipo greco, fu rinvenuto uno scarico di materiale votivo che documenta l’esistenza di un piccolo santuario.
Per quanto riguarda invece l’area dell’abitato - oltre al rinvenimento di un ampio vano costituito da poderosi muri perimetrali, al cui interno si trovarono allineati almeno tre grandi pithoi per la conservazione di derrate alimentari - gli ambienti riportati alla luce testimoniano il perdurare di un’edilizia domestica “povera” e strettamente legata alle tipologie tradizionali, così come la suppellettile connessa alla conservazione ed alla preparazione degli alimenti.
I consistenti livelli di distruzione per incendio documentano l’abbandono dell’insediamento alla metà circa del III sec. a.C., anche in questo caso in stretta relazione cronologica con gli avvenimenti della prima guerra punica.